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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 

 

capitolo 5

SFOLLATI  E  DEPORTATI

 

In quei giorni la Gianna stava proprio sotto i bombardamenti, nel paesino della Fontana, dove viveva con la famiglia. 
Racconta che, al suono dell’allarme, scappavamo tutti per rifugiarsi nelle grotte della Rupe del Sasso. 
Allora dalla Fontana si vedeva una lunga fila di gente (tutti gli abitanti del paese), dirigersi verso le grotte, così senza nessuna protezione. 
Poi, appena arrivati nel rifugio, c’era il cessato allarme! 
Finché, con l’arrivo dell’estate e l’avvicinarsi del fronte, furono costretti a rimanere permanentemente in grotta, dove dovettero vivere per mesi in condizioni a dir poco disagiate. 
Ogni nucleo familiare aveva preso posto nel proprio loculo, dove depositava materassi e coperte.  

Per i nostri bisogni corporali, andavamo fuori, subito dietro la grotta. Così era sempre pieno di escrementi e a nessuno che venisse in mente di pulire un po’,  prendere un badile e buttare tutto giù per il grotto.

Le normali attività lavorative erano ormai tutte cessate e i negozi avevano chiuso. 
Alla Fontana i Tedeschi avevano preso possesso della bottega dell’Ida di Cassani, e da lì salivano frequentemente alle grotte, alla ricerca degli uomini validi. Ma gli uomini erano tutti nascosti, chi dentro le grotte (anche all’ insaputa degli stessi familiari) e chi nel bosco come Pietro, suo padre. 
Pietro, allora poco meno che quarantenne, era troppo “vecchio” per il militare. Però in quel periodo dovette nascondersi, perché avrebbero preso anche lui  Si nascondeva, insieme agli altri uomini, nei boschi sopra la Rupe.

La nonna Natalina, che abitava in un podere in cima alla Rupe, portava da mangiare a lui e anche agli altri  uomini. Quel poco che metteva insieme, visto che non ne bastava neanche per la propria numerosa famiglia. 
Lassù c’era un piazzale da dove i Tedeschi sparavano con i cannoni e la nonna abitava proprio lì. 
A volte, dalle grotte in cui vivevamo, andavo, con mia cugina, su per la Rupe, dalla nonna. E c’erano le cannonate che ci passavano di qua e di là, non so da dove, le pallottole facevano ssssssss!   

Quando i Tedeschi salivano in grotta, noi donne avevamo paura, perché a volte avevano preso delle ragazze. 
Una volta che vennero, dissero che volevano due ragazze per pelare delle patate, le venivano a prendere per andare giù alla bottega. Allora, visto che ero una cinnazza, ci andai io con un’altra, che però era più grande di me e così bellina! 
Mi misero lì in cucina, nella bottega di Cassani, a pelar le patate. Invece la ragazza che era con me la mandarono di sopra a fare le camere! 
Quando tornò mi disse: micca dir niente veh, dì che siamo sempre state assieme.
Non seppi mai cos’era veramente accaduto in quelle stanze di sopra, vidi solo che lei non era messa tanto bene.

Mentre la Gianna stava nella grotta della Rupe, Martino stava nel rifugio del monte sopra la Lama.

Era un rifugio in cui pioveva dentro e venne anche giù un blocco di terra.
Io compii i miei vent’anni proprio lì dentro. Era l’11 novembre 1944.
Pensavo: guèrda bàin duv a véin a cumpîr gl’ân mé, i véint’ân
(guarda dove vengo a compiere gli anni io, i vent’anni)…i vent’anni sono i più belli, dicono. 
Era un periodo che pioveva quasi tutti i giorni e quei rifugi erano talmente superficiali, che con le grandi piogge cominciarono a crollare. Ecco perché direi che adesso non si vedono più.  Per questo ci spostammo in altri rifugi più in basso. 
Nelle case giù di Campofedele e Brolo, le famiglie di contadini che abitavano lì avevano fatto, per i civili, dei rifugi robusti, sotto a delle pareti molto spesse e quindi erano più sicuri. 
Allora io ed altri andammo a nasconderci lì insieme alle famiglie del luogo. 
Ma dopo poco tempo, nello stesso mese di novembre di quell’anno, ci piombò nel rifugio una pattuglia tedesca, che ci prelevò per andare a lavorare. 
Ci portarono su a S. Silvestro, dove, dato l’imminente arrivo del fronte, i Tedeschi volevano fare delle trincee. 
Non ci fecero del male, perché anche se loro sospettavano che noi fossimo partigiani, non eravamo più armati (le armi le avevamo nascoste), quindi eravamo civili e loro avevano bisogno di manodopera per fare quelle trincee. 
Si attestarono anche su Monte Sole, come sui monti dei dintorni, tenevano botta e costruivano fortificazioni per mitraglie, cannoni e via dicendo.  

La sera stessa della nostra deportazione, le mogli dei contadini che erano stati portati via con noi, vennero su a chiedere al tenente delle SS se ci lasciavano venire a dormire nei rifugi, dove era più sicuro, perché i bombardamenti e le cannonate degli alleati erano sempre più frequenti. 
Era un giovane tenente, che subito rispose: no, no, niente buono. 
Le donne si misero a piangere, tanto che, ad un certo punto, lui si mosse a compassione e ci lasciò tornare nei rifugi. Però disse: voi andare rifugio e domattina ore 8 essere qui a lavorare. E noi: sì, sì, certo! 
Ma mentre scendevamo dal monte, le donne ci comunicarono la notizia: abbiamo avuto l’ordine di evacuare, domattina dobbiamo andar via, dobbiamo andare a Bologna. 
L’ordine veniva proprio dai Tedeschi, che non volevano che ci fossero dei civili in zona. 
Quindi, ci dissero con fermezza le donne, domattina presto, appena giorno, noi partiamo e voi altri venite con noi. 

E così facemmo. Era il 14 novembre 1944. 
Io in mezzo a loro, chi aveva la carriola, chi il biroccetto a mano per portarsi dietro qualcosa. Ho ancora negli occhi la scena: tutta ‘stà povera gente dalla Lama di Reno, con ‘sti carrioli, carrettini, con le bestie spaiate, chi piangeva, i bambini…era uno strazio. 
Quando arrivammo alle grotte sopra al Botteghino (dove ora c’è la trattoria La Rupe), io andai su nei rifugi per vedere di trovare qualcuno che conoscevo: difatti le grotte erano piene di rifugiati della Fontana e Case Gasparri, che avevano portato su dei viveri, così facevano qualcosa da mangiare… 
C’era anche la mia futura moglie, la Gianna, lassù nelle grotte. Ma io allora non la conoscevo. 
Nelle grotte ritrovai invece Gardini, Pasquini, Lucchi e altri. Erano quelli del gruppo di Guido Cremonini che, alcuni mesi prima, si erano spostati dalla parte di Dola. 
Mi ricordo che Gardini mi disse: noi abbiamo deciso di restare qui, non andiamo a Bologna, perché qui le famiglie si sono organizzate, hanno fatto  provviste, hanno da mangiare. Contiamo di passare il fronte da qui. 
Infatti allora si pensava che il fronte venisse avanti in fretta. Invece si mosse solo in primavera. 
Quelli del mio gruppo dissero che era meglio andare a Bologna. Io mi lasciai convincere, così mi avviai verso Bologna, insieme alle famiglie della Lama.

Presto i Tedeschi mandarono via anche tutti quelli che erano nelle grotte, che nel frattempo avevano finito le provviste e l’acqua. 
Così anche la Gianna, con la famiglia, dovette andare a Bologna. 
Anche gli uomini che erano stati nascosti nel bosco, visto che non c’era più nessuno a rifornirli di cibo, uscirono allo scoperto e si unirono all’esodo. 
Gianna prosegue nel suo racconto.

Anche mio padre venne giù, allora preparammo una carriola con le poche cose che avevamo, io avevo una bicicletta, dove avevo caricato il mio fratellino Giulio, e quando fummo a Sasso, in località Cervetta catturarono mio padre insieme a tutti gli altri uomini.  Allora mia madre e Chicco, l’altro mio fratello, presero la carriola e io insieme a loro, sempre con Giulio sulla bicicletta, riprendemmo tristemente la strada per Bologna.

Anche Martino, con i suoi amici della Lama, dopo aver lasciato gli altri compagni nelle grotte, dovette passare per il posto di blocco della Cervetta. 
La pattuglia dei Tedeschi era là ad attenderli e li presero tutti.

Io avevo ancora due o tre lineette di febbre la sera. Poi smisi di provarmela, visto che non avevo più il termometro! 
Provai a dire che ero krank
(malato). E loro: no, tu buono. 
Quel Tedesco in principio mi ascoltò pazientemente, ma poi, alle mie insistenze, sbottò: tu buono, dio boia! E dovetti cedere. 
Lì alla Cervetta c’era una macelleria con cancelli di ferro: ci misero lì dentro (dove c’è il fornaio adesso) e così fecero con tutti quelli che fermavano. 
Arrivarono anche Gardini e gli altri, che erano rimasti nelle grotte. 
Allora io gli chiesi ironico: ma cum’éla ca si qué
(come mai siete qui)
Vidi anche quando presero Pietro, il padre della Gianna. Venne lì dentro con me, però allora ci conoscevamo appena. 
Alcuni (tra cui Pietro, Grassilli e Bettini) li portarono su a S. Silvestro, località da dove ero appena sfuggito ai lavori imposti dalle SS. Allora pensai: se mi mandano lassù mi riconoscono e non so cosa mi potrà succedere…perché c’era quella regola lì che se uno scappava, lo facevano fuori…non è sempre stato vero, però ne hanno fatto di quelle cose lì, rappresaglie ecc. 
Fortunatamente mi portarono a Cà d’Piréin
(casa Pierino, nei pressi del vecchio ingresso dell’autostrada), lì a Sasso. 
Durante il giorno eravamo in zona, circa duecento rastrellati, accampati nelle case di Prato del Miglio. 
La sera, all’imbrunire, ci caricavano nei camion e ci portavano verso Monzuno e zone limitrofe, per portare le munizioni al fronte.  

Una notte i Tedeschi mandarono me ed alcuni altri giovani rastrellati a portar via del bestiame nella zona di Vado, all’Allocco. 
Là c’era un mulino, il famoso il mulino dell’Allocco, al muléin dl’Alòc. 
Era giù vicino al fiume, dove adesso c’è la passerella, che allora era distrutta. 
Quando arrivammo al mulino, vi trovammo delle famiglie di civili e anche dei Tedeschi. 
C’erano delle bestie nella stalla e i contadini ci supplicarono di non portarle via, perché erano la fonte del loro sostentamento. 
E noi cosa potevamo fare? 
Noi siamo qui rastrellati come voi, sono i Tedeschi che comandano, noi non possiamo mica decidere se prenderle o meno. 
E loro: fate in maniera che ce le lascino, che danno un po’ di latte, che ci permette di sopravvivere, con i bambini... 
Niente da fare, i Tedeschi furono perentori: mucche portare. 
Così, come sempre per evitare i bombardamenti,  aspettammo che cominciasse a scurire, poi uscimmo ed andammo a prendere le bestie. 
Portammo questi animali giù lungo il Setta e, quando vedemmo che il fiume non era in piena, anche se faceva molto freddo, cominciammo ad attraversare con le bestie alla cavezza. 
Quando fummo nel bel mezzo del fiume - c’era una luna che sembrava giorno – inaspettatamente incominciarono ad arrivare gli aerei e mitragliarono sopra di noi. 
Le bestie si spaventarono e ci scapparono e dovemmo recuperarle. 
Poi riuscimmo a passare di là dal fiume e proseguimmo finché arrivammo giù a Casa Venezia di Battedizzo, una casa sulla strada, che c’è ancora, anzi l’hanno ampliata ed è diventata una bella casa, mentre prima era una casetta con la stalla. 
Ci fermammo lì e mettemmo le mucche nella stalla. 
Quando si fece giorno, noi avevamo una gran fame, perché la sera eravamo partiti senza mangiare. Io trovai un tegame lì in giro, lo pulii un po’ come potei e cominciai a mungere una mucca per bere almeno un po’ di latte. Allora si diceva che il latte appena munto si poteva anche consumare crudo. 
E invece: un mal di pancia! 
Riprendemmo la nostra strada e arrivammo a Prato del Miglio. Lì c’era una piccola stalla, dove tenevano le bestie, che venivano poi macellate ogni due o tre giorni, per la mensa dei molti Tedeschi lì alloggiati e anche di noi rastrellati.

 

 

 

 

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