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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 

 

capitolo 8

LA  LIBERAZIONE

 

Il 20 aprile 1945, un giorno prima della Liberazione di Bologna, la madre di Fernando, tramite una conoscenza, riuscì a tirarci fuori dal carcere e riportarci nella casa sopra Ponte Ronca. 
Ero là, quando ci fu la battaglia di Zola Predosa. 
Ricordo che una notte cominciarono a sparare. I Tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra e noi in mezzo ai due fuochi. 
Ci rifugiammo sotto una montagna di fascine di legna, dove avevano scavato un tunnel nel terreno. Era un rifugio ben poco affidabile. Poteva forse servire da paraschegge, ma se fosse arrivata una cannonata in pieno, sarebbe volato via tutto. 
Eravamo tutti lì dentro con una famiglia di Ponte Ronca che si era unita a noi. 
Ma io non mi sentivo affatto al sicuro dalle cannonate. Allora dissi al mio amico Fernando: per me qui facciamo la fine del topo. Meglio andare in casa, perché ci sono i muri, e se stiamo giù a pian terreno potremmo salvarci. 
Probabilmente, chi aveva ricavato quel rifugio sotto il mucchio della legna, pensava che, a differenza della casa, che poteva essere presa facilmente di mira, questo poteva passare come magazzino della legna. 
Il rifugio e la casa distavano tra loro circa cinquanta metri. Quando fummo a metà strada fra la catasta di legna e la casa, arrivò una cannonata proprio contro un albero vicino e fummo scaraventati tutti in terra, per lo spostamento d’aria. Io sbattei le ginocchia per terra, tanto violentemente che temetti di non potermi rialzare. Poi, arrancando, riuscii ad entrare in casa. 
E per tutta la notte fu quella rumba lì, sempre cannonate da una parte e dall’altra. 

Finalmente arrivò il mattino e con esso cessarono di sparare e arrivarono gli Alleati. Era il 21 aprile 1945. 
Mi ricordo che i primi che ho visto io erano Marocchini. 
Di loro le ragazze avevano paura, perché avevano sentito parlare di violenze sessuali. 
Tanto è vero che nel film La Ciociara, la ragazza viene violentata dai Marocchini. 
Anche se, tutto sommato, non credo che loro si comportassero diversamente da tutti gli eserciti da che mondo è mondo. 
Comunque le ragazze, ce n’erano diverse lì dov’ero io, andarono subito a nascondersi. 
Ma quando questa pattuglia arrivò, noi gli offrimmo da bere, ben lieti di vederli. Naturalmente non fecero niente di male. 
Gli Americani avevano questa politica: mandavano avanti le truppe di colore e loro stavano un po’ coperti. Infatti verso sera del giorno dopo arrivarono proprio gli Americani, alcuni giovani vennero lì in casa, parlavano poco l’italiano, però qualche parola si intendeva.  

Il giorno dopo andammo giù al paese di Ponte Ronca, dove ci fu detto dai capi partigiani di andare a Bologna. 
Andammo con vari mezzi di fortuna, alcuni in bicicletta. C’era un vecchio camion che sembrava aver l’asma quando avviava il motore. 
Insomma riuscimmo ad arrivare a Bologna, dove prendemmo parte alla sfilata dei partigiani. Partendo dalla periferia, entrammo in città, con tutta la gente che faceva i cordoni sui marciapiedi delle strade e applaudiva. 

Festa della Liberazione a Bologna: il terzo in prima fila è Bruno Bregolini, il Comandante. In seconda fila a destra con la bandiera è Martino con i pantaloni alla paracadutista.

A quel punto ci chiesero se intendevamo ritirarci completamente dall’attività partigiana o se volevamo aggregarci alle truppe alleate, per andare a portare a termine la guerra. Ed io, ormai che c’ero, fui uno di quelli che firmarono per andare. 
Rimanemmo alcuni giorni lì in una caserma, finché i capi decisero di lasciare perdere, anche perché l’esercito tedesco era in rotta ormai e gli Alleati procedevano senza alcuna resistenza. 
Quindi, venendo meno la necessità di aiuti da parte nostra, ci diedero il benestare per tornare alle proprie case.

E io tornai nella casa colonica sopra Ponte Ronca. 
Il babbo, da parte sua, voleva tornare a casa propria con il suo biroccio e le due bestie. 
Però nel frattempo era nata una vitellina, che mio padre voleva pure portare a casa, perché due bestie non sarebbero bastate e un’altra vitellina faceva comodo. 
Però lui non sapeva come fare a portarla a casa. 
Allora mi chiese se potevo aiutarlo, trovando qualche mezzo. 
Intanto lui partì con sua moglie, il biroccio a due ruote e il suo carico di grano, che aveva comprato al  mercato nero, un baule con pochissimi abiti, le mie sorelle di 10 e 16 anni, caricò tutti quanti, attaccò le bestie e andò. 
Allora io, sempre insieme all’inseparabile Fernando, andai giù in paese , dove si era formato il Comitato di Liberazione Nazionale. Lì conoscevo dei ragazzi che erano stati in prigione con me e chiesi loro se mi potevano prestare un animale, un mulo o un cavallo, per portare della roba a casa a Sasso Marconi. 
Mi risposero: sì senz’altro, tutti i cavalli che siamo riusciti a requisire ai Tedeschi, che li hanno abbandonati durante la ritirata, li abbiamo affidati a delle famiglie di contadini. Proprio vicino a voi c’è un tale di Sasso, che faceva il birocciaio, cui abbiamo assegnato un mulo. Andate là a nome nostro (credo che mi dessero anche una carta scritta), vi fate dare il carro con il mulo e poi glielo riportate. 
Quando ci presentammo da quest’uomo, lui si oppose: ah ma questo mulo non si può usare, perché non è domato! 
Allora io gli chiesi: voi perché l’avete preso allora? E lui alla fine crollò. Confessò di aver mentito per timore di non riaverlo indietro, visto che per lui era un mezzo di lavoro indispensabile. 
Lo rassicurai e mi feci aiutare ad attaccarlo al carro, perché non l’avevo mai fatto prima, le bestie bovine sapevo come attaccarle al carro, con il giogo e tutti i finimenti, però dei cavalli non avevo nessuna esperienza. 
Era un bel mulo grande e messo bene, anche buono ed obbediente. Caricammo la vitellina sul carro e la legammo perché
non sbandasse, poi partimmo per via Montebrollo, fino a S. Lorenzo in Collina, per poi scendere sul fiume Lavino a Ponte Rivabella e poi su per l’Olivetta, fino a Mongardino. 
Quando arrivammo alla Grotta di Mongardino c’era mio padre lì, poveretto, che mi aspettava. Si era preso dalla Fontana a piedi, per venirci incontro, per avvisarci che la strada era impraticabile. 
Aveva tentato, senza sapere se ci avrebbe trovati. 
Così dovemmo passare per i monti, perché per la strada giù a valle non si poteva transitare. C’erano continuamente le colonne degli Alleati. 
Inoltre la strada sotto la Rupe non c’era più, l’avevano minata i Tedeschi. 
Si poteva passare solo a piedi per un sentierino. 
Gli Americani invece passavano per la ferrovia, da dove, con i loro validi mezzi, in poco tempo avevano sbaraccato via i binari. Andavano giù per via Fiaccacollo, seguivano la ferrovia e dalla Stazione prendevano via Setta (ora via Ponte Albano) e rientravano in Porrettana. 
Noi invece salimmo fino alla scuola delle Lagune e scendemmo per via Ronchi. E’ una stradina tutta sconnessa che scende molto ripida. 
Bene o male arrivammo alla casa della Fontana.

Era già sera. 
La mia matrigna riuscì a farci qualcosa per cena, anche se non avevano quasi niente da mangiare e rimanemmo lì a dormire.  
L’indomani mattina ripartimmo presto per andare a restituire il mulo con il carretto, dato che avevamo dato la nostra parola. 
Tutto andò bene finché non ci trovammo su per la ripida salita della strada dei Ronchi, tra la Cà di S. Leo e Sant’Andrea.
Nonostante il carretto fosse scarico, il mulo non ce la faceva, poverino, veniva avanti un po’ e poi si fermava. 
Allora cosa feci? Dissi a Fernando: tu resta qui e tieni il mulo, mentre io vado a  vedere se a S. Andrea c’è qualcuno che ci può aiutare. 
Là trovai per fortuna un contadino che conoscevo. Era Oreste Betti, che aveva una coppia di buoi. Gli chiesi se mi faceva il favore di venirmi a dare uno strappo con le sue bestie. 
Lui fu molto disponibile e, senza chiedere nulla in cambio, venne lì, attaccò un cavo al carro e i suoi buoi riuscirono a tirar su carro e mulo. 
Le salite che trovammo poi, per raggiungere la cima delle Lagune, erano tutte abbordabili, così arrivammo a destinazione, senza altri intoppi e potemmo mantenere la parola data all’assegnatario del mulo.  

Anche ai contadini di Cadantone, su per via Rupe, che lavoravano la terra per i Comelli -  gli stessi nostri padroni - il Comitato di Liberazione aveva assegnato un cavallo. Era un gran bel cavallo! 
Il contadino di quel podere, un certo Collina Francesco, andando a lavorare nel campo, dopo la liberazione, inciampò in un ordigno, che esplose, rovinandogli un occhio. 
Poiché lì da noi non c’era nessuno che potesse prestargli le cure necessarie, dovendo quindi recarsi all’ospedale a Bologna, mi chiese se lo potevo portare con quel suo cavallo e il biroccio a due ruote. 
Nelle privazioni dell’immediato dopoguerra, era già molto poter disporre di finimenti di rimedio, tutti rattoppati, con aggiunte di legacci di materiali vari. 
Bene, dissi io. Sistemammo quei finimenti, caricai Francesco sul biroccio e partimmo. 
Quando fummo alla Fontana e passammo davanti a Villa Sanuti, c’era lì sulla strada ad aspettarci proprio il padrone, il signor Ciro Comelli, al sgnòur Ciro. 
Disse: ne approfitto, Martino, per venire a Bologna anch’io, mi carichi? 
So anc’ a  mé
(certamente)! E caricai pure lui. 
Tutti e tre sul biroccio, trainati da quel bel cavallo abbandonato dai Tedeschi in fuga, lisci, lisci lungo la Porrettana, ormai sgombra dal traffico alleato, arrivammo al passaggio a livello  di Casalecchio. 
In quel punto il fondo stradale era particolarmente dissestato, con enormi buche, allora io scesi dal biroccio, prendendo il cavallo per la cavezza, per evitare le buche più profonde. 
Ma non bastò. Ad uno strappone più forte, si lacerò il sottopancia del cavallo. Istantaneamente le stanghe volarono in aria, il biroccio si ribaltò all’indietro e con esso i suoi due occupanti: il padrone signor Ciro e il povero Francesco infortunato. 
Io, che ero a terra, nel vedere tutte quelle gambe all’aria, con tutto il rispetto che portavo per il padrone e la pena che provavo per il contadino ferito, sul momento ci rimasi male, ma subito dopo mi venne da ridere, nel ripensare la scena che, nonostante tutto, aveva del comico! 
Dovemmo poi metterci tutti e tre d’impegno per cercare di ripristinare in qualche modo quei poveri finimenti. 
Finalmente riuscimmo a raggiungere Bologna. Dapprima scaricammo il signor Ciro, che doveva andare nella propria abitazione di via Frassinago, poi attraversammo tutto il centro della città, che almeno era priva di traffico, in quel periodo, per arrivare fino all’ospedale S. Orsola. 
Ancora fino a poco tempo fa, finché è stato in vita, il povero Francesco Collina, quando ci incontravamo, immancabilmente mi ricordava l’episodio e finivamo entrambi in una sonora risata. 
Il suo occhio si era salvato, ma aveva perso quasi tutta la vista, tanto è vero che prendeva una piccola pensione come invalido civile di guerra, perché era pur sempre stato un ordigno di guerra a ferirlo! 

 

 

 

 

LINK AI CAPITOLI

 

[Prologo[1-In guerra[2-Nella Todt]  [3-Nei partigiani]  [4-Da ferito]  [5-Sfollati e deportati]  [6-A Bologna]  [7-Da Ponte Ronca al carcere]  [8-La Liberazione]  [9-Il Dopoguerra] 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
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