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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI

 

LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.

 

 

capitolo 7

DA  PONTE RONCA  AL  CARCERE

 

Decisi di partire con Fernando, per Ponte Ronca di Zola Predosa. Visto che io avevo già recuperato le forze, andammo a piedi. 
Era la fine di gennaio del ’45. Fu un inverno in cui venne una grande nevicata e c’era ancora la neve.

Fu in quei giorni che Attilio e Chicco (nonno e fratello della Gianna), trovarono lavoro a spalare la neve in Stazione a Bologna.

Tempo dopo, seppi che, all’indomani della mia partenza, suonarono alla porta di via Centotrecento e quando aprirono si trovarono davanti una pattuglia di Brigata Nera. Dissero: noi cerchiamo uno che sta qua! Uno che è stato nei partigiani. Risposero: qui non c’è nessuno. Allora i brigatisti andarono a frugare un po’ dappertutto, ma dovettero andarsene con un pugno di mosche. 
Non seppi mai chi mi aveva tradito. La Nella aveva i suoi sospetti e forse anch’io. Ma non ho mai fatto nomi. 
A Ponte Ronca trovai una grande casa colonica pronta ad ospitarmi. Era situata  su per una stradina che andava verso S.Lorenzo in Collina. E lì ritrovai la mia famiglia. Non ci vedevamo dal maggio del ’44. 

Olindo Righi, padre di Martino, durante la seconda guerra mondiale.

I miei avevano portato lì un paio di mucche, le avevano trasferite lì con il biroccio, da Cà di Monari delle Lagune, dove erano sfollati dalla Fontana. 
Non c’era molto anche lì da mangiare, però c’era il latte e facevano anche un po’ di formaggio. 
Inoltre mio padre riuscì a trovare un paio di quintali di grano al mercato nero, lo fece macinare, così riuscimmo a fare un po’ di pane e un po’ di sfoglia. 
Eravamo presso una famiglia che allora aveva dieci figli. Infatti l’ultimo si chiamava Decimo. 
La figlia più grande a sua volta era sposata lì in casa e aveva già tre figli. 
Si era poi aggiunta la mia famiglia di cinque membri. 
A tavola quindi ci riunivamo in ventuno! 

In febbraio io e Fernando cominciammo a cercare contatti con i partigiani della zona di Ponte Ronca. 
Iniziammo a collaborare con loro, attaccando ai muri i manifesti del materiale di propaganda. 
Nel frattempo aiutavo mio padre a zappare la vigna, dato che lui era soprattutto impegnato a governare il bestiame, tra cui le sue mucche e le bestie del contadino che ci ospitava. 
Tutto filò liscio per un po’, poi qualcosa andò storto. 
Nel paesino di Ponte Ronca, alcune ragazze si intendevano con i militari tedeschi. 
Allora qualche stolto, forse per gelosia, iniziò a minacciare: quando sarà passata la burrasca, e arriveranno gli Alleati, voialtre vi toseremo tutte! 
Avrebbe fatto meglio a tacere, visto che di lì a poco, per rivalsa, quelle ragazze  cominciarono a far dei nomi ai Tedeschi. 
Così, una notte, verso le due, ci piombarono in casa i militari tedeschi. 
Vennero al piano di sopra e proruppero nella camera in cui dormivo, condividendo il letto con i molti cinni della casa chi spisaiévan tra lé da par tót
(che pisciavano dappertutto)
Mi ricordo che, siccome non c’era la luce elettrica, avevano una di quelle torce meccaniche che funzionavano premendo una leva. 
Mi puntarono la torcia negli occhi: krrr krrr. Ed io mi svegliai soprattutto per il rumore di questa raganella. 
Per istinto, preso alla sprovvista, sbottai: cusa vût
(cosa vuoi)? E lui: du partisan (tu partigiano)? E io: niente partisan. 
Volle vedere i miei documenti, allora io presi fuori dai pantaloni il mio portafoglio, che conteneva poche lire e delle fotografie di alcune ragazze, vecchie fiamme, così per ricordo. 
Cominciarono a stendere queste foto sopra al letto, esclamando: queste qui sono tutte staffette partigiane! Ed io protestai: no, sono mie amiche… 
Niente da fare: dovetti alzarmi e con me anche Fernando. 
Ci dovemmo vestire in fretta, poi ci portarono giù a Ponte Ronca. 
Là ne trovammo almeno altri dieci come noi, belli vestiti e impacchettati: riconobbi subito il mio commissario politico e altri che conoscevo un po’ di vista, tutti quanti partigiani. 
Ci caricarono tutti su un camion e ci portarono in S. Giovanni in Monte, dove allora c’erano le prigioni di Bologna. 
Ricordo che, mentre eravamo sul camion per strada – si cominciava già a vedere la luce del giorno – raggiungemmo un omarello che andava a lavorare molto presto. Fermarono il camion e caricarono anche lui, incuranti delle sue proteste: mo mé ai ho d’andé a lavurèr
(io devo andare a lavorare)!  

Rimanemmo circa un mese nelle prigioni di S. Giovanni in Monte. Ci davano da mangiare della brodaglia da maiali. Stavamo nei sotterranei, tanto è vero che le porte erano nel soffitto. Eravamo in una sessantina in un camerone, con i buglioli in un angolo della stessa stanza. 
Siccome il vitto che ci passavano era disgustoso, i familiari dei detenuti, pur nelle ristrettezze di quel periodo, mandavano qualche pacco con un po’ di cibo. Dicevamo: è arrivato un convoglio! E ci dividevamo sempre tra noi il contenuto. 
In S. Giovanni in Monte, i Tedeschi erano alpini dell’esercito, quindi erano un po’ più umani. Ma ogni giorno prelevavano alcuni detenuti e li portavano in via S. Chiara, dove c’era un comando delle SS, che procedeva senza tregua agli interrogatori. 
Ero terrorizzato, nell’attesa che un giorno o l’altro toccasse anche a me. 
Vedevamo rientrare ragazzi più morti che vivi, per violenze subite durante quegli interrogatori! 
Alcuni di loro erano stati sorpresi nel proprio letto con l’arma sotto il cuscino. Questi vennero torturati duramente per estorcere loro i nomi degli altri partigiani, dei comandanti. 
Venne il giorno in cui toccò a me, con altri del nostro gruppo. Ma quella volta non fecero in tempo ad interrogarmi. 
Altre due volte mi portarono davanti alle SS, senza interrogarmi ed ogni volta era uno spasimo. Pensavo sempre a quei ragazzi picchiati a sangue, che intanto erano spariti dalla circolazione. Sapemmo successivamente che erano stati portati via e ammazzati. 
Quella volta era un gruppo grosso e mi interrogarono per ultimo. 
Cominciarono col dire che ero un partigiano. No, no – cercai di difendermi  - no, sono un profugo di Sasso Marconi, dove c’è il fronte. 
Ad un certo punto, mi si avvicinò uno delle SS, grande e grosso, che mi mise una mano dietro la schiena e tuonò: dire verità! e io: stai tranquillo, che sto dicendo la verità! 
Inaspettatamente mi credettero. E non mi toccarono.

 

 

 

LINK AI CAPITOLI

 

[Prologo[1-In guerra[2-Nella Todt]  [3-Nei partigiani]  [4-Da ferito]  [5-Sfollati e deportati]  [6-A Bologna]  [7-Da Ponte Ronca al carcere]  [8-La Liberazione]  [9-Il Dopoguerra] 

 

 

 

 

 

 

   
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