Civiltà Contadina
Alcune considerazioni sulla vita dei contadini in particolare per quelli che vivevano nel nostro appennino dall’unità d’italia alla seconda guerra mondiale. Prima di tutto la tabella che segue illustra i numeri del censimento del 1931, e offre un confronto fra montagna, collina e pianura. Poi ho cercato di fare una sintesi delle cose che caratterizzavano la vita dei contadini del nostro appennino. Infine una galleria di foto pertinenti, e una citazione di un signore svizzero che fece ricerche anche nel nostro territorio.
La Famiglia
La composizione delle famiglie contadine aveva una evoluzione continua. Per un orientamento sulle tipologie prenderei in considerazione i due casi estremi: la famiglia minima di marito e moglie appena sposati che vanno per conto loro, e la famiglia massima dove quattro o più figli maschi si sono sposati e sono rimasti in casa.
Famiglia minima
Per una coppia appena sposata iniziare un’attività come mezzadri presentava difficoltà proibitive. Già alla nascita del primo figlio infatti si presentava la necessità di avere un solo adulto in grado di lavorare nei campi, e questo era un grosso problema perché molti lavori che implicavano l’uso dei buoi richiedevano almeno la presenza di due persone. Almeno un bambino di sei sette anni per stare davanti alle bestie. Per una tale famiglia non c’erano poderi adatti, era truppo piccola. In genere il percorso di una tale famiglia era destinato all’abbandono della mezzadria per andare in un appartamento in affitto. Il lovoro del marito poteva essere come bracciante, o per lavori saltuari. In genere si lavorava qualche settimana poi si era di nuovo a spasso.
Famiglia grande
La famiglia di grandi dimensioni, con molti maschi adulti, era una famiglia che occupava sicuramente un grande podere. Un podere che rendeva molto. Questa configurazione aveva molti pregi, fra cui il mantenimento dell’esperienza e dei vecchi, e la competizione fra i giovani per emularli. La flessibilità nell’economia molto diversificata, e la possibilità di un maggiore potere contrattuale perché al padrone quel tipo di famiglia rendeva molto.
Uno svantaggio era la necessità di convivere, di accettare la sottomissione e le umiliazioni.
San Michele
Il san michele era il trasloco, che di solito si faceva per i santi. Quando la famiglia non era più conveniente per il padrone egli li mandava via. Veniva un sensale a stimare i lavori ed i beni della famiglia del mezzadro, e per i santi, mentre il contadino se ne andava, entrava il nuovo.
In genere erano i contadini stessi che cercavano il podere adatto a loro, in quella data situazione famigliare. E’ anche per questo che le fiere ed i mercati erano importanti luoghi d’incontro.
I mezzadri non avevano molte cose, specialmente le piccole famiglie. Spostarsi da una casa all’altra era facile.
Le coltivazioni
Dalle nostre parti nei campi si coltivavano il grano per la farina da fare il pane; il granoturco per la farina per fare la polenta; l’erba medica per fare il fieno da dare alle bestie; l’orzo per alimentare le galline e altri animali, e per fare caffè; ceci per i maiali, la vigna per il vino, e alberi da frutta. Inoltre, come attività collaterali si coltivava la canapa e la seta.
Gli animali
Il porcile di una famiglia grande poteva avere la scrofa e nidiate di maialini, fra i quali solo un paio venivano allevati e gli altri venduti piccoli a chi non avesse la scrofa. Nella famiglia piccola invece un maialino acquistato al mercato ad un certo punto poteva diventare un fardello troppo pesante a causa del costo di mantenimento, perciò a volte il porcile era vuoto.
Dal maiale, per chi poteva permetterselo, si otteneva di tutto: nulla andava perso.
Nel pollaio ci potevano essere una decina di polli nella famiglia piccola, e una cinquantina nella grande. Dal pollaio si ricavavano le uova, da vendere e da usare per la sfoglia, e la carne.
Le famiglie grandi tenevano anche le faraone, le anatre, le oche, e il tacchino
La stalla
Nella stalla si tenevano i buoi, maschi castrati allevati per il lavoro; le mucche femmine adulte per la produzione di vitelli e di latte, in grado anche di lavorare portando il carro per le cavedagne, le manzole, giovani femmine che potevano anche essere allevate per essere vendute alla macellazione. La stalla produceva il latte, da cui si ricavavano formaggi e ricotta, e letame, per la concimazione dei terreni.
L’orto
Ogni contadino coltivava anche l’orto, per carciofi, fagioli, cipolle, aglio, pomodori, ed altri ortaggi utili per la cucina tradizionale. Vicino alle case non mancava mai la pianta di rosmarino e di alloro.
Il castagneto
Quasi tutte le case avevano un pezzetto di castagneto. Alcune lo avevano a distanza di chilometri, ma come diceva Firmo le castagne erano la salvezza dalla fame.
Il raccolto delle castagne durava alcune settimane in autunno, e dopo il raccolto le si faceva essiccare nei graticci. Il graticcio è una stanza particolare che ha un soffitto fatto di listelli che lasciano fessure molto fitte, detto graticcio. Le castagne vengono stese nel graticcio e per alcuni giorni viene tenuto il fuoco acceso al piano inferiore sotto al graticcio. Dopo l’essicazione andavano liberate dalla buccia, e per questo si usava pilarle. Le si metteva in un contenitore e con un bastone provvisto di ramponi si agiva come con una vanga, spingendo con il piede i ramponi a fondo nelle castagne secche. Dopo che erano essicate e pelate le si portava al mulino per fare la farina.
Le castagne secche potevano essere mantenute a lungo, e si potevano bollire, oppure con la farina si facevano i castagnacci, o la polenta di castagne.
Chi non aveva il castagneto poteva andare a spigolare, dopo che i proprietari avevano finito il raccolto.
La legna
La legna era l’unico mezzo per riscaldare e per cucinare. Però la divisione della legna era 1/6 al mezzadro ed il resto al padrone, quindi bisognava tagliarne tanta per potresi riscaldare.
Una pratica comune era quella di trasformare parte della legna in carbone, che poteva essere venduto
La cantina
La cantina nelle case coloniche era molto importante. Doveva essere un luogo asciutto e interrato, per garantire una temperatura fresca d’estate e temperata d’inverno. Vi si conservava la carne di maiale, i formaggi ed si metteva il vino.
La figna e il fienile
Nel fienile si accumulava il fieno per tutto l’inverno. Era importante ammassarlo secco, per evitare muffe, e di solito il fienile era al piano superiore rispetto alla stalla. Dalla stalla si saliva per una scaletta a pioli per una botola e di sopra c’era un attrezzo per tagliare il fieno in striscie da 30 cm. A volte, se il fieno non era sufficiente lo si mischiava anche con la paglia. Tagliato il fieno veniva buttato di sotto per la botola, e lo si metteva nella mangiatoia.
Le mucche erano legate nelle poste con una catena, abbastanza lunga per farle sdraiare, ma non di più. Dietro la loro schiena c’era il solco, nel quale scorrevano le urine. Ogni giorno occorreva togliere gli escrementi e gettarli fuori nel letamaio.
La cucina
La cucina era dotata di un camino con una catena a cui venivano attaccati paiolo, calderina, padella, o altri tegami dotati di mainico apposito. Quando cucinava si doveva fare un fuoco abbastanza adatto al tegame usato.
Oltre al camino c’erano anche appositi fornelli che andavano riempiti di braci, e su questi si mettevano casseruole in terracotta.
Poi ovviamente c’era il forno. Una cupola di mattoni refrattari che doveva essere prima riscaldato con il fuoco vivo, poi una volta riscaldata a dovere la cupola si estraeva la cenere ed il resto del materiale bruciato, e si inseriva il pane, o altre cose da cucinare, e lo si richiudeva per il tempo necessario.
Paul Scheuermeier
Una interessante testimonianza è quella di Paul Scheuermeier, che negli anni venti, percorse la Svizzera italiana e l'Italia centro-settentrionale sulle orme dei dialetti. Le sue fotografie e i suoi diari sono gli eccezionali testimoni di un mondo ormai scomparso.
Siamo negli anni venti del Novecento e Scheuermeier si butta in una delle imprese più significative della linguistica romanza dell'epoca: la raccolta di materiali per l'Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale, quell'AIS che è ancora oggi uno strumento di lavoro indispensabile per tutti quanti si occupano di dialettologia.
Ma l'avventura non è solo scientifica. Nel corso dei suoi lunghi viaggi, fatti spesso a piedi, il «professore» incontra persone che lo toccano nel profondo. I contadini con i quali s'intrattiene per delle ore, alla ricerca di parole ed espressioni, non sono per lui dei semplici informanti. È il ritratto di un'umanità quello che riversa nei suoi diari, un ritratto fatto di aneddoti, di povere cene condivise, di rispetto.Un'opera da scoprire
Insieme agli appunti linguistici e ai diari, le fotografie di Scheuermeier costituiscono un fondo prezioso di materiali, affidato alle cure dell'Archivio AIS dell'Università di Berna. Per lo più inediti, i materiali che riguardano la Svizzera italiana sono stati raccolti recentemente nel volume Parole in immagine.Frutto di un programma Interreg realizzato in collaborazione con la Lombardia, Parole in immagine presenta accanto ai testi di Scheuermeier (tradotti dal tedesco all'italiano) anche alcuni saggi introduttivi: Antonio Mariotti si occupa degli aspetti fotografici, Linda Grassi di quelli linguistici e Jon Mathieu del significato storico delle testimonianze raccolte dal ricercatore zurighese.Il volume è un esempio riuscito di opera di divulgazione. Per apprezzarlo non sono necessarie conoscenze specifiche, ma solo una buona dose di curiosità – la stessa che probabilmente animava Scheuermeier – nei confronti di una cultura sul punto di scomparire o già scomparsa. «Il documentare ciò che è in via di estinzione è un atto sensato che non necessita di una giustificazione particolare», scrive nel suo saggio lo storico Jon Mathieu. «Ma forse questa non è l'espressione adatta, perché, come recita il detto proverbiale di William Faulkner: il passato non è mai morto: non è neppure passato».