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- Categoria: Memoria e Resistenza
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Le donne che lasciarono ISIS
• Le tre donne siriane intervistate per questo articolo, tutte ex membri della polizia morale dello Stato Islamico, sono fuggite in Turchia quest'anno e si sono incontrate con un giornalista in una città turca meridionale per una intervista durata ore, insieme e separatamente, nel corso di due visite.
• I nomi Aws, Dua e Asma sono pseudonimi utilizzati per la loro protezione, ma esse si sono pienamente identificate inclusi i loro legami familiari.
• I loro racconti del lavoro per lo Stato Islamico, della loro vita e di eventi in Raqqa, Siria, negli ultimi anni sono stati coerenti tra di loro e con interviste e racconti di altri residenti ex e attuali di Raqqa.
• Le donne hanno anche condiviso le immagini prese col cellulare di luoghi in Raqqa e della loro vita lì [immagini che sono stati confermati in modo indipendente].
Le donne poliziotto ISIS e in Siria Raccontano la collaborazione, l’angoscia e la fuga
Di Azadeh MOAVENI NOV. 21, 2015 (traduzione di s.muratori, editing di Francesca)
Aws, 25, un ex residente di Raqqa, Siria, era un membro della Brigata Khansaa, polizia morale femminile dello Stato islamico. Il suo primo marito era un jihadista, e quando morì in un'operazione suicida lei a malincuore accettò di sposare un altro combattente. Credit Tara Todras-Whitehill per il New York Times
TURCHIA MERIDIONALE - Dua lavorava solo da due mesi per la Brigata Khansaa, la polizia morale tutta al femminile dello Stato Islamico, quando i suoi amici furono portati alla stazione per essere frustati.
La polizia aveva trasportato in città due donne che lei conosceva fin dall'infanzia: una madre e la figlia adolescente, entrambi sconvolte. Le loro abaya, [l’abaya è un lungo camice nero, di tessuto leggero, che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani. Per coprire la testa è poi consuetudine usare un altro indumento che varia a seconda del paese, come il niqab, che copre tutta la testa eccetto gli occhi, o un semplice velo che copre solo i capelli.] vesti nere che scorrono lungo il corpo, erano state considerate troppo aderenti.
Quando la madre vide Dua, si precipitò e la pregò di intercedere. La stanza sembrava soffocante, mentre Dua pensava cosa fare.
"I loro abaya erano davvero molto stretti. Le ho detto che era colpa loro: erano uscite indossando la cosa sbagliata" disse "erano arrabbiati per quello"
Dua tornò a sedersi e guardò gli altri ufficiali che portarono le donne in una stanza sul retro per frustarle. Quando rimossero le loro niqab che nascondevano i visi, si scoprì che le sue amiche indossavano anche il trucco. Ci furono 20 frustate per il reato dell’abaya aderente, cinque per il trucco, e altre cinque per non essere state abbastanza remissive con la polizia.
Quando le loro grida cominciarono a risuonare Dua fissò il soffitto, e le si formò un nodo alla gola.
Da quando aveva aderito alla Brigata Khansaa nella sua città natale, Raqqa, nel nord della Siria, la Polizia Morale era diventata più violenta anche se era passato poco tempo. Per molte donne l’abaya e il niqab erano obblighi recenti, istituiti da poche settimane, dopo che i jihadisti dello Stato Islamico avevano preso il sopravvento e eliminato i militanti concorrenti dalla città.
In un primo momento la Brigata fu istruita per dare alla comunità la possibilità di adattarsi, e reati di abbigliamento erano puniti con ammende di lieve entità, ma siccome molte giovani donne furono scoperte a ripetere i reati, pagando le multe senza cambiare il loro comportamento, l'approccio morbido fu abbandonato.
Ora venivano frustate - e ora erano le sue amiche ad essere punite.
Dopo quella punizione la madre e la figlia andarono a casa dei genitori di Dua, furiose con lei e arrabbiate per lo Stato Islamico.
"Hanno detto che l’odiavano e avrebbero voluto che non fosse mai venuto a Raqqa", ha detto Dua. Lei le supplicò di perdonarla, spiegando che come giovane e nuovo membro della Brigata Khansaa non c'era nulla che avrebbe potuto fare.
Ma una lunga amicizia, con festività e compleanni condivisi, fu improvvisamente rotta. "Da quel giorno non sono più venute a casa nostra; manifestavano così il loro odio contro di me”.
Anche Aws, cugina di secondo grado di Dua, ha lavorato per la Brigata. Poco tempo dopo che le amiche di Dua furono frustate, Aws ha visto combattenti frustare brutalmente un uomo in Muhammad Square. L'uomo, di circa 70 anni, fragile e con i capelli bianchi, era stato sentito imprecare Dio. Una folla si riunì, e i combattenti lo trascinarono nella piazza e lo frustarono dopo che era caduto in ginocchio.
"Si è lamentato per tutto il tempo", ha detto Aws. "E 'stata una fortuna per lui che aveva maledetto Dio, perché Allah mostra misericordia. Se avesse maledetto il Profeta, lo avrebbero ucciso."
Oggi, Aws ha 25 anni, e Dua, 20, e vivono in una piccola città nel sud della Turchia dopo essere fuggite da Raqqa e dai suoi governanti jihadisti. Si sono incontrate qui con Asma, 22 anni, un’altra disertrice dalla Brigata Khansaa, e hanno trovarto rifugio nella grande comunità di profughi siriani della città.
Raqqa è ampiamente conosciuta come la capitale del califfato dell’auto-dichiarato Stato Islamico e come il fulcro dei pesanti attacchi aerei sferrati da un numero crescente di paesi in cerca di vendetta per i recenti attacchi terroristici del gruppo.
Ma la città in cui le tre donne sono cresciute era molto diversa. Identificate in questo articolo con soprannomi, le donne hanno parlato per molte ore nel corso delle due visite di questo autunno, ricordando le loro esperienze sotto il dominio dello Stato Islamico e di come i jihadisti abbiano completamente cambiato la vita in Raqqa.
Tutte e tre si sono descritte come tipiche giovani donne di Raqqa. Aws era più amante di Hollywood, Dua di Bollywood. La famiglia di Aws era di classe media e lei ha studiato letteratura inglese ad Hasaka, presso una filiale dell'Euphrates University, distante tre ore di autobus. Ha divorato romanzi di Agatha Christie ma soprattutto quelli di Dan Brown. "Digital Fortress" è il suo preferito.
Il padre di Dua è un contadino; ma nonostante il denaro per lei fosse più limitato, la sua vita sociale era strettamente intrecciata con quella di Aws, e le cugine amavano la loro affascinante città.
C'erano lunghe passeggiate a Qalat Jabr, la fortezza dell’11° secolo sul lago Assad, caffè al Parco Al Rasheed e il ponte Raqqa, dove si potevano vedere le luci della città di notte. Nel giardino e parco divertimenti del centro città c’era la gelateria e i narghilè comunali attorno ai quali ci si riuniva.
"In estate tutti uscivano di notte e rimanevano fuori fino a tardi, perché era così caldo durante il giorno" … ha detto Dua.
Le donne, sui loro cellulari, conservano vecchie foto delle loro vite in Raqqa, scene di festa e gite in campagna. La galleria di Aws comprende giornate in riva al lago, amici in costume da bagno e balli in acqua.
Asma, con uno sguardo luminoso, è stata un’altra giovane donna dalla mente aperta. Ha studiato Business presso l'Università Eufrate; sua madre era nativa di Damasco, la capitale, perciò lei ha trascorso lì un po’ della sua adolescenza, con gli amici andava a feste in piscina nei caffè. Anche lei è un’avida lettrice, appassionata di Ernest Hemingway e Victor Hugo. Parla anche un po’ l’inglese.
Tutte tre appartenevano a una generazione di donne siriane che stavano conducendo una vita più indipendente rispetto al passato: si mescolavano liberamente con i giovani uomini, socializzando e studiando insieme in una città nella quale convivevano religioni diverse con usanze relativamente rilassate.
Molte giovani donne vestivano quello che chiamano stile sportivo: si truccavano e lasciavano scoperte braccia e mezze gambe in estate. E, mentre i residenti più conservatori di Raqqa indossavano abaya e veli, sempre più donne andavano al college e si sposavano più tardi. La maggior parte degli uomini e delle donne si sceglievano i loro coniugi.
Quando nel 2011 in alcune parti della Siria iniziò la rivolta contro il governo del presidente Bashar al-Assad, da Raqqa sembrava lontana. Le notizie di scontri e massacri che iniziarono a filtrare provenivano per lo più da città lontane, nell’ovest del paese, come Homs. Anche quando gli sfollati cominciarono a comparire a Raqqa e i giovani della città iniziarono ad arruolarsi nei gruppi anti-Assad della zona (fra i quali il Fronte Nusra e quello che oggi è lo Stato Islamico) il tessuto della vita sociale sembrava intatto.
All'inizio del 2014 tutto è cambiato. Lo Stato Islamico ottenne il pieno controllo di Raqqa e fece della città il suo centro di comando, consolidando violentemente la sua autorità. Coloro che resistevano, o erano sospettati di complicità con dissidenti, sono stati arrestati, torturati o uccisi.
Lo Stato islamico è conosciuto in tutto il mondo con nomi come ISIS e ISIL, ma gli abitanti di Raqqa lo chiamavano: “Al Tanzeem”, l'Organizzazione. Fu subito chiaro che ogni posizione sociale e ogni possibilità per una famiglia di sopravvivere era totalmente dipendente da essa.
Non solo i residenti di Raqqa diventarono succubi di leader dell'Organizzazione per lo più iracheni, ma il loro posto nella società scese improvvisamente molto in basso. Quando i combattenti stranieri e altri volontari cominciarono a fluire in città rispondendo al richiamo della jihad, sono diventati loro i protagonisti di quella comunità spaventata. A Raqqa i siriani erano diventati cittadini di seconda classe - nella migliore delle ipotesi.
Dua, Aws e Asma furono tra le siriane fortunate alle quali fu offerta la possibilità di unirsi all’Organizzazione e ciascuna di loro scelse di barattare la propria vita, attraverso il lavoro e il matrimonio, con essa.
Nessunoa di loro ha aderito alla estrema ideologia dello Stato Islamico; e anche dopo avere abbandonato le loro case e essere scappate ancora faticano a spiegare come hanno potuto trasformarsi da giovani donne moderne in Poliziotte di Moralità, per lo Stato Islamico.
In quel momento ogni scelta sembrava quella giusta: un modo per mantenere una vita tollerabile; sposare combattenti poteva placare l'Organizzazione e garantire la tranquillità delle famiglie; aderire alla Brigata Khansaa permetteva di guadagnare una certa libertà di movimento e un reddito dignitoso in una città dove le donne erano state spogliate di ogni libertà.
Ma ogni concessione si trasformò presto in orrore e le donne giunsero a deplorare il modo in cui erano costrette a contrapposti ai loro vicini, costrette a diventare parte di una forza di lacerazione della comunità che amavano. Solo dopo mesi, vedove, abbandonate e costrette a sposare nuovamente sconosciuti, capirono che erano state utilizzate come unguenti temporanei di combattenti stranieri, il cui unico credo era la violenza in nome di un Dio irriconoscibile.
Ognuna di loro arrivò alla conclusione che la fuga era l'ultima possibilità di vita. E ciascuna si unì al flusso dei siriani che abbandonavano il loro paese, lasciando un vuoto che avrebbero riempito gli stranieri, i quali non avevano a cuore per nulla la Siria.
I fidanzamenti
In una foto rilasciata da un sito web militante, un rappresentante dello Stato Islamico, al centro, predica ai giovani in strada a Tal Abyad, una città di confine nel nord-est della Siria. Credit: Militante Sito web, tramite Associated Press
Aws fece la prima concessione all’Organizzazione il giorno in cui Abu Muhammad, un combattente turco per lo Stato Islamico, varcò il portone di casa sua per cercare una sposa.
Suo padre e il nonno hanno incontrato Abu Muhammad nel soggiorno; Aws lo avrebbe potuto vedere in un prossimo incontro, se lui avesse offerto una dote adeguata. Ma lei era un tipo troppo romantico e aveva visto troppi film con Leonardo Di Caprio per accettare di sposare un uomo di cui non aveva visto il volto.
Quando si inginocchiò dietro la porta del soggiorno per lasciare le tazze di caffè che aveva preparato sbirciò per un attimo e lo intravide: aveva grosse sopracciglia, occhi chiari e una voce profonda.
Mentre aspettava che la discussione si concludesse cercò di immaginare come avrebbe potuto essere la loro vita insieme e quando il padre la chiamò lei aveva già nervosamente deciso di dire di sì, per il bene della sua famiglia.
Dopo il loro matrimonio fu sorpresa di scoprire che il legame le sembrava vero - anche affettuoso. Ad Abu Muhammad piaceva acarezzare le fossette sulla sua guancia sinistra e la prendeva dolcemente in giro per il suo accento quando cercava di pronunciare le parole turche.
Ma spesso lui non veniva a casa la sera e a volte andava per tre o quattro giorni di fila a combattere per lo Stato Islamico. Aws odiava essere lasciata sola e teneva il broncio quando lui tornava a casa; lui rispondeva con battute sciocche, lusingandola e conquistando il suo perdono.
Lei cercava di mantenersi occupata socializzando con altre mogli di combattenti. Si sentiva anche fortunata, perché alcune di loro erano sposate con uomini violenti.
Tutti avevano sentito parlare di Fatima, che si era uccisa tagliandosi i polsi dopo essere stata costretta a sposare un combattente; poi c'era la ragazza tunisina della porta accanto, che scoppiava in lacrime ogni volta che qualcuno menzionava il nome del marito. E comunque anche loro erano considerate più fortunate di donne catturate dalla minoranza Yazidi, che venivano contrabbandate in città come schiave per altri combattenti.
I giorni di Aws diventavano sempre più vuoti e insopportabili. Socievole e vivace, con lunghi e ricci capelli neri e un viso da monella, lei si annoiava ed era molto infelice. Finiva i lavori domestici in fretta, e poi non c'era nessun posto dove andare. Nuovi libri erano quasi impossibili da trovare dopo che i jihadisti avevano vietato quasi tutte le fiction, purgato le librerie e il centro culturale locale.
L'organizzazione aveva anche gettato una pesante ombra sul suo matrimonio: Aws aveva sempre desiderato un bambino, ma Abu Muhammad le chiese di prendere la pillola anticoncezionale, ancora disponibile presso le farmacie di Raqqa, dicendo che lo avevano consigliato i suoi comandanti per evitare che le loro mogli rimanessero incinta: nuovi padri sarebbero stati meno inclini a offrirsi volontari per svolgere missioni suicida.
Questo fu uno dei primi devastanti momenti in cui Aws capì che non ci sarebbe stata normalità o scelta: lo Stato Islamico era un terzo partner nel suo matrimonio, là in camera da letto. "In un primo momento continuavo a insistere con lui, ma lo faceva solo infuriare, così ho smesso".
Per la famiglia di Dua, il denaro era sempre stato un problema. Suo padre era ancora agricoltore, ma molti avvocati e medici, che avevano perso il posto di lavoro quando i jihadisti avevano assunto la direzione, avevano anch’essi iniziato a vendere frutta e verdura per tirare avanti, creando nuova concorrenza. Poi l'Organizzazione impose tasse, che tagliarono ulteriormente il reddito della famiglia. Così quando un combattente saudita venne a chiedere di sposare Dua, nel febbraio 2014, il padre la spinse ad accettare.
Il saudita Abu Soheil Jizrawi proveniva da una famiglia benestante di costruttori a Riyadh e promise di trasformare la vita di Dua, la quale alla fine accettò. Lo incontrò per la prima volta il giorno delle nozze, quando arrivò portando oro per la sua famiglia. Le piaceva: Abu Soheil era di pelle chiara con una morbida barba nera, alto e dinoccolato, aveva carisma e un modo semplice di farla ridere.
Lui la sistemò in uno spazioso appartamento con nuovi elettrodomestici da cucina europei e unità di aria condizionata in ogni stanza - quasi impensabile a Raqqa. Lei mostrava con entusiasmo la sua nuova casa ad amici e parenti. La sua cucina divenne il luogo dove la moglie di un altro combattente dell'edificio - una siriana che, come Aws aveva sposato una recluta turca - si fermava per un caffè. Ogni mattina, il servo di Abu Soheil faceva compere per loro e lasciava borse di carne e prodotti fuori dalla porta.
Combattenti dello Stato Islamico si preparano a bruciare sigarette sequestrate lo scorso anno a Raqqa. Credit: Reuters
Alla sera la coppia si univa per la cena e lui si complimentava per la sua cucina, soprattutto quando lei faceva il suo piatto favorito: kabsa, un piatto di riso condito con carne e melanzane. Ad Abu Soheil non dispiaceva nemmeno il piccolo tatuaggio rosa sulla sua mano, anche se i tatuaggi permanenti sono proibiti in rigide interpretazioni dell'Islam.
"Ha cambiato la mia vita completamente", dice Dua. "Mi ha convinto ad amarlo."
Riempire le ore vuote
Mentre era venuta un po' di luce nella vita di Aws e Dua, il soggiorno di Asma, a Raqqa, era perennemente buio e soffocante. Lei manteneva le tende tirate e le finestre chiuse in modo che nessuno potesse sapere che aveva la televisione accesa all'interno. Televisione, musica, radio: tutto era tenuto con il volume basso, che si potesse appena sentire.
Anche quel passatempo stava diventando scarso per Asma, perché l’elettricità a Raqqa si ridusse a due, a volte quattro, ore al giorno. Di certo non poteva più andare dall’estetista o dal parrucchiere per passare il tempo.
L'Organizzazione decretò che Internet poteva essere utilizzato solo per il lavoro importante, come quello dei reclutatori, che andavano online per corteggiare pazientemente nuovi combattenti e donne straniere per la Siria. Asma, che in precedenza passava alcune ore ogni giorno sul suo portatile, si trovò scollegata dal mondo.
"Ma per loro era O.K. contattare tutte quelle ragazze per attirarle in Siria", ricorda Aws, mentre le tre donne che siedono insieme, qui in Turchia, alzano gli occhi tutte assieme. "Quello era lavoro"
Nel mese di febbraio 2014, due mesi dopo il suo matrimonio, incapace di convincere Abu Muhammad a farla rimanere incinta, Aws ha deciso di aderire alla Brigata Khansaa. Dua vi si unì circa nello stesso tempo, così hanno iniziato la loro formazione militare e religiosa insieme.
Le cugine avevano le loro perplessità ad unirsi alla Brigata, ma avendo già sposato combattenti avevano già fatto la scelta di sopravvivere all'occupazione di Raqqa allineandosi con l'Organizzazione. Inoltre lavorare con la brigata era anche l'occasione per fare qualcosa, avvicinandosi ai lavori dei mariti. La piena portata della oppressione esercitata della brigata si sarebbe poi concretizzata solo con il tempo.
Un certo numero di parenti di Asma aveva già iniziato a lavorare per lo Stato Islamico in diversi modi; lei ha riflettuto con attenzione prima di entrare, nel gennaio 2014, ma con la sua famiglia già coinvolta dall'Organizzazione sembrò la scelta più logica.
"Per me si trattava di potere e denaro, per lo più potere", ha detto Asma passando all’inglese per descrivere quelle motivazioni. "Dal momento che i miei parenti si erano tutti arruolati non avrebbe cambiato molto se anch’io mi fossi unita. Ho solo avuto più autorità."
Anche se le donne hanno cercato di razionalizzare il loro arruolamento, era impossibile evitare di vedere l'Organizzazione come la sfrenata macchina per uccidere che era. Ma tutta la Siria, a quanto pareva, era diventato luogo di morte.
Di notte Aws e Dua sentivano dai rispettivi mariti, che avevano aspettato e coi quali andavano a letto, tentativi di auto-giustificazione: dovevano essere selvaggi quando si conquistava una città per minimizzare le perdite dopo l’occupazione, dicevano gli uomini. Le forze di Assad prendevano di mira i civili, rastrellando nelle case nel mezzo della notte e brutalizzando uomini davanti alle loro mogli; i combattenti non avevano perciò altra scelta che rispondere con altrettanta brutalità, dicevano.
Tutte e tre le donne hanno partecipato alla formazione necessaria per l'entrata nella Brigata Khansaa. Circa 50 donne per volta seguivano il corso armi di 8 ore al giorno per 15 giorni, nei quali imparavano come caricare pistole, come pulirle e come sparare. Ma le donne straniere che erano venute in Siria per unirsi allo Stato Islamico si diceva fossero addestrate sui "Russis", slang per fucili d'assalto Kalashnikov.
Le lezioni di religione, tenute prevalentemente da marocchini e algerini, si focalizzavano sulle leggi e principi dell'Islam. Dua, per esempio, era contenta di seguire quel corso, perché sentiva di non aver conosciuto abbastanza sull'Islam prima dell’invasione dell'Organizzazione.
In marzo 2014 Aws e Dua erano già fuori ogni giorno sulla strada con pattuglie della brigata, e si muovevano per la città in piccoli furgoni Kia grigi con la scritta "Al Khansaa" sui lati. C'erano donne di tutto il mondo nella brigata: britanniche, tunisine, saudite, francesi. Ma nativi e stranieri erano ognuno nelle rispettive unità, perché l'Organizzazione aveva emesso un severo decreto in tutta Raqqa: nessuna commistione tra nativi e stranieri. Gli occupanti pensavano che il pettegolezzo fosse pericoloso: gli stipendi e le strutture potevano essere paragonati, e le ipocrisie esposte.
Lo “status” a Raqqa - come era stato ottenuto e com’era espresso - stava diventando una fonte di lamentela. Dua ha spiegato apertamente, con un'espressione modesta ma soddisfacente, che lei aveva goduto di uno status più elevato rispetto alla maggior parte a causa del suo ricco marito saudita, che si diceva fosse in alto in seno all'Organizzazione.
"Come donne il nostro status dipende dal suo status", dice Aws riferendosi ai mariti in generale. Tra i combattenti di sesso maschile, questo era stato chiaro fin dall'inizio: stipendi, auto, quartieri e abitazioni venivano assegnati in gran parte per nazionalità.
È stato subito chiaro che le donne straniere avevano più libertà di movimento, più reddito disponibile e piccoli vantaggi: saltare davanti nella fila per il pane; non dover pagare in ospedale. Alcuni sembravano avere l'accesso a Internet senza restrizioni, inclusi profili multipli su Twitter.
"Le donne straniere potevano fare quello che volevano", si lamenta Asma. "Potevano andare dove volevano."
"Sono state viziate", ha detto Aws. "Anche quelle che erano più giovani di noi avevano più potere".
"Forse è perché hanno dovuto lasciare il proprio paese per venire qui - si è ritenuto che dovessero essere trattate più gentilmente" ha dichiarato Dua, come sempre più riluttante a criticare.
"Noi non potevamo neanche dire nulla", dice Aws. "Non potevamo nemmeno chiedere perché."
L'organizzazione non aveva accessi per rimostranze. Sembrava operare di nascosto, ed essere sposata con un suo combattente non forniva alcuna informazione reale sulle sue attività e sulle sue ambizioni. Importanti personalità, come il califfo stesso, Abu Bakr al-Baghdadi, non sono mai state viste in pubblico. Anche all'interno di Raqqa rimaneva un'ombra, dicono le tre donne.
Il ruolo di Asma nella Brigata Khansaa includeva l’incontro con donne straniere al confine con la Turchia, 50 miglia a nord, e l’accompagnamento a Raqqa di notte. Con la sua infarinatura di inglese e l’aria cosmopolita era ben adatta a quel compito. Lei riceveva un foglio di carta con i nomi e l'equipaggio - due o tre donne della brigata, un interprete e un autista – e si avviava per l'autostrada.
Persone riunite presso il fiume Eufrate a Raqqa lo scorso anno, poco dopo che lo Stato islamico ha preso il pieno controllo della città. Credito Nour Fourat / Reuters
Molte donne arrivavano dall'Europa. Una notte di primavera di quest'anno, Asma e il suo equipaggio hanno ricevuto tre ragazze inglesi vestite in abiti occidentali, ma con i loro capelli coperti. "Erano così giovani, minute, e così felici di essere arrivate, ridendo e sorridendo", ha ricordato.
Le ha accompagnate ad un ostello e le ha aiutate a sistemarsi. Come con la maggior parte delle straniere che ha scortato non le ha più viste. Fu solo più tardi che vide i loro volti postati su Internet, identificate come studentesse di Bethnal Green di Londra, migrate per scelta, per unirsi allo Stato Islamico.
Asma rimase sconcertata dalla loro decisione di abbracciare così allegramente quella stessa vita che stava minando la sua serenità ogni giorno.
Prima Asma aveva un fidanzato al college. La loro relazione era complicata: lui l'aveva spinta a indossare un foulard in testa e a vestire più conservativo ancora prima che lo Stato Islamico prendesse il controllo di Raqqa, ma lei rifiutò perché non voleva essere giudicata dalla quantità di pelle che aveva coperto. Dopo il cambio di gestione lui si è trasferito in Giordania per completare gli studi.
Ora lei portava il suo hijab [velo islamico] tutto il giorno e lo faceva applicare anche alle altre donne. Ma di notte ascoltava il gruppo rock Evanescence sul suo telefono e rimpiangeva il passato.
Un giorno di primavera del 2014 le donne della stessa unità di polizia di Dua si recarono a una delle piazze principali della città per assistere alla lapidazione di due donne locali, presumibilmente per adulterio. Dua rifiutò di andare. Non le piaceva come i militanti apprezzavano lo spettacolo esagerando la corretta applicazione della legge islamica. "Nell'Islam sono necessari quattro testimoni all'atto di effettuare una tale punizione", ha detto.
In poche ore si sparse la voce che una delle donne non era mai stata coinvolta con un uomo. Si diceva che avesse dimostrato al di fuori della questura della città con un cartello che diceva: "Tasqoot al-Tanzeem." Abbasso l'Organizzazione.
In primavera, quando gli alberi iniziarono a fiorire, era frequente vedere le teste dei soldati catturati e persone accusate di tradimento appese nella piazza principale vicino alla torre dell'orologio. Ma la maggior parte di coloro che erano rimasti a Raqqa o avevano troppa paura di ribellarsi o non desideravano farlo.
Inorridite, le cugine cercarono di farsi coraggio, dicendo a se stesse che, pur avendo aderito all'Organizzazione, almeno loro non stavano uccidendo personalmente nessuno.
"Abbiamo visto tagliare molte teste", ha ricordato Dua.
«Hai visto le teste - erano solo le teste che avete visto", la correge Aws
"Be ', è vietato nell'Islam mutilare i corpi".
"Ho visto i corpi che giacevano in strada per una settimana intera".
Il mercato di strada a Tal Abyad lo scorso anno, prima della festa di Eid al-Adha. Credit Reuters
Asma, disturbata dall’andamento della conversazione, si è appartata ed ha iniziato a guardare Facebook sul suo telefono cellulare. Delle tre donne, lei è l'unica in grado di leggere le notizie occidentali in rete. Lei sapeva che il mondo considerava lo Stato Islamico grottesco ed era ossessionata da ciò di cui si era macchiata all'inizio della sua vita adulta.
All'interno della brigata le donne avevano iniziato a utilizzare la loro autorità per risolvere liti o vendicarsi. "Le ragazze che litigavano sarebbero andate all'Organizzazione ad accusare le loro nemiche di qualche infrazione", ha ricordato Aws. "Anche se queste non avessero fatto nulla di male sarebbero state portate comunque nel quartier generale."
Il loro lavoro di infliggere la paura ai loro vicini era un tormento. Pensare che tutti facessero probabilmente il doppio gioco era l'unica ipotesi attendibile.
"Molte volte ho visto donne che conoscevo che mi sorridevano vedendo che mi ero arruolata", ha detto Aws. "Ma sapevo che dentro si sentivano in modo diverso. Lo sapevo perché prima che io mi arruolassi, quando vidi una ragazza che conoscevo la quale aveva iniziato a lavorare con ISIS, mi irritai".
Le mogli dei Martiri
Come il marito di Aws, quello di Dua Abu Soheil, non voleva figli. Ma Dua non aveva fretta, perciò non insistette.
Una settimana, nel mese di luglio 2014, lui non rientrò per tre notti. Il quarto giorno un gruppo di combattenti bussò alla sua porta: le dissero che Abu Soheil si era fatto saltare in aria in una battaglia contro l'esercito siriano a Tal Abyad, al confine con la Turchia.
Dua ne rimase sconvolta, soprattutto quando il comandante le disse che Abu Soheil aveva chiesto espressamente una missione suicida. Lui non le aveva mai parlato di un tale piano e lei crollò, tremando e singhiozzando ai piedi degli uomini.
Cercò di consolarsi con il pensiero che era un onore essere la moglie di un martire; ma giorni dopo apprese un fatto che rese le cose ancora più difficili da sopportare: Abu Soheil si era ucciso in un'operazione non contro l'esercito siriano odiato, ma contro un gruppo di ribelli concorrente che lo Stato islamico stava cercando di spazzare via.
"Ho pianto per giorni," ha detto. "E 'morto combattendo altri musulmani."
Solo 10 giorni dopo un altro uomo dalla stessa unità di suo marito venne a casa sua e le disse che lei non poteva stare a casa da sola e aveva bisogno di sposarsi di nuovo, subito.
Anche in questo caso l'Organizzazione distorceva la legge islamica per i propri fini. Secondo interpretazioni quasi universali dell'Islam, una donna deve aspettare tre mesi prima di risposarsi, soprattutto per stabilire la paternità di ogni bambino che potrebbe essere stato concepito. Il periodo di attesa, chiamata idaa, non solo è necessario ma è il diritto della donna, per permetterle di piangere. Ma anche nel campo della legge divina, lo Stato Islamico stava riformulando tutto.
«Gli ho detto che io ancora non riuscivo a smettere di piangere", ha detto Dua. "Ho detto: 'Ho il cuore spezzato. Voglio aspettare tutti e tre i mesi". Ma il comandante le disse che era diversa da una vedova normale. "Non dovresti essere in lutto e triste", ha detto. "Ha richiesto il martirio lui stesso, e tu sei la moglie di un martire. Dovresti essere contenta."
Combattenti dello Stato Islamico tengono una parata a Raqqa nel giugno 2014. Credit Reuters
Quello fu il momento in cui in lei si ruppe qualcosa.
L'organizzazione aveva fatto di lei una vedova, e voleva farlo ancora e ancora, trasformandola in una distrazione temporanea perpetua per i combattenti suicidi. Non rimaneva altra scelta, nessuna dignità, solo il servizio richiesto dalla necessità dello Stato Islamico di rifornire uomini alle sue linee di combattimento.
"Ho avuto un uomo buono, con un buon matrimonio, e non volevo finire in uno cattivo", ha detto Dua. "Sapevo che sarebbe stato doloroso per me sposare qualcuno solo per perderlo quando va in missione suicida. È naturale avere sentimenti e affezionarsi".
Lei sapeva che doveva scappare, anche se ciò significava lasciare la casa che avrebbe dovuto essere la sua eredità.
La notizia arrivò anche ad Aws, non molto tempo dopo che era arrivata a Dua. Anche Abu Muhammad si era ucciso in una operazione suicida. Non c'era nessun funerale a cui partecipare e non c’erano parenti coi quali addolorarsi. Lei ne rimase devastata.
Non ebbe tempo di riprendersi prima che l'Organizzazione venisse a bussare. "Mi hanno detto che era un martire ora. Ovviamente lui non aveva più bisogno di una moglie; ma che c'era un altro combattente che ne aveva bisogno", ha detto Aws. "Dissero che questo combattente era stato un amico di mio marito, che voleva proteggermi e prendersi cura di me a suo nome."
Lei accettò a malincuore, seppur mancasse ancora un mese al completamento del suo periodo di lutto. Le cose però non funzionavano con il nuovo marito, un egiziano che si presentava a casa anche meno frequentemente di quanto facesse Abu Muhammad. Per tutto ciò che riguardava lui - la sua personalità, la sua bellezza, i loro rapporti sessuali – Aws si scosse e usò un'espressione acida con una sola parola: "aadi." Normale.
Quando due mesi dopo scappò con il suo salario, senza nemmeno un saluto, Aws rimase abbandonata, senza nemmeno lo status di vedova. Tornata a casa dei suoi genitori vagò da una stanza all'altra, in lutto per la vita che aveva avuto prima e stordita da quanto in basso si sentiva di essere caduta.
Partenza
Per il mondo esterno il territorio controllato dallo Stato islamico potrebbe sembrare una terra sigillata a tenuta ermetica, governata dalle leggi più dure del VII secolo. Ma fino a poco tempo fa i percorsi dentro e fuori di Raqqa erano per lo più aperti. I commercianti andavano e venivano, rifornendo l'Organizzazione di tutto ciò di cui c’era bisogno - comprese le sigarette, che alcuni combattenti fumavano, nonostante fossero state vietate per i residenti di Raqqa.
Dua, incapace di sopportare un altro matrimonio forzato, se ne andò per prima. Suo fratello contattò amici siriani in Turchia meridionale, i quali avrebbero potuto accoglierla dall'altra parte, così i due all’inizio di quest’anno salirono su un piccolo minibus per una corsa di due ore fino al Tal Abyad. Il flusso di profughi verso la Turchia era ancora pesante allora e i due attraversarono la frontiera senza essere fermati.
Quando 4 mesi dopo Aws decise di scappare era più difficile passare la frontiera perché la Turchia aveva iniziato a stringere il cordone di sicurezza. Lei contattò Dua che la mise in contatto con l'uomo che l’aveva aiutata qualche mese prima ad uscire.
L'uomo è parte di una rete che ha organizzato, nel sud della Turchia, un lavoro a domicilio per estrarre persone dal territorio dello Stato Islamico. Quando Aws arrivò al valico di frontiera, uno dei colleghi dell'uomo la stava aspettando con una carta d'identità falsa in cui figurava come sua sorella, nel caso l’avessero interrogata.
Aws aveva il cuore in gola, ma quando venne il momento della traversata gli uomini al posto di blocco non le chiesero di mostrare il documento, e tanto meno di togliersi il velo.
All’inizio della scorsa primavera anche Asma pensava costantemente a fuggire.
Raqqa era stata trasformata: prima, avrebbe visto qualcuno che conosceva ogni 20 passi: la città le sembrava piccola. Ma ora, coloro che avevano potuto, erano fuggiti. Sul lavoro, in pubblico, dappertutto era circondata da facce strane e accenti stranieri.
L'Organizzazione disapprovava che le giovani donne rimanessero non sposate e la situazione di Asma si faceva complicata. Divenne profondamente depressa, i giorni le scivolavano addosso aridamente.
"Non potevi andare dal medico senza che ti accompagnasse tuo padre o tuo fratello. Non potevi andare a fare una semplice passeggiata", ha detto. "Non riuscivo proprio più a sopportarlo."
Sentiva che la sua identità veniva negata. "Prima ero come te", ha detto rivolta a una giornalista, agitando le braccia su e giù. "Avevo un fidanzato, andavo alla spiaggia, indossavo un bikini. Anche in Siria indossavamo gonne e canottiere corte e tutto questo era normale. Anche ai miei fratelli non importava - non avevo avuto problemi con nessuno".
Quando lei e una cugina organizzarono la fuga non lo fecero sapere a nessuno, neppure alle loro famiglie, e non hanno preso null’altro che le loro borse. Un amico dentro l'Organizzazione accettò di aiutarle ad uscire, e la paura per la sua sorte rese quel viaggio di notte ancora più terrificante. L'amico le guidò attraverso tre posti di blocco e infine, solo dopo l’una di notte, sono arrivati al valico di frontiera. Lì mostrarono le loro carte d'identità e sussurrarono l’addio.
"Ero convinta che il ragazzo al posto di blocco sapesse che stavamo cercando di scappare. Ero così nervosa e spaventata ", ha ricordato Asma. «Ma poi ho capito che sembrava così sospettoso solo ai miei occhi, perché ero troppo spaventata."
L'auto che li venne a prendere dall’altra parte sembrava grigia, al chiaro di luna. Salirono: si allontanarono dallo Stato Islamico e da quello che era rimasto della Siria.
Piccola Siria
La città turca in cui le tre donne ora vivono posa su una asciutta pianura erbosa, la cui periferia è punteggiata di mandorli e boschetti di prugne, pini e ulivi. Pochi anni fa, durante un boom immobiliare, vi sono stati edificati quartieri con condomini; alloggio a buon mercato che permettono a molti rifugiati siriani di ricostruire la loro vita qui.
Per le strade ci sono bambini siriani trasandati, dediti all’accattonaggio e alla vendita di tessuti per la strada, proprio come a Istanbul o a Beirut in Libano; ma ci sono anche opportunità di lavoro e l'affitto per un appartamento con due camere da letto non è incredibilmente fuori portata.
Ormai in città ci sono tanti siriani per cui in centro sono stati aperti loro ristoranti e baklava shops [baklava è un dessert tipico], e i commercianti dei bazar sono ormai diventati pratici nel dire in arabo: "Questo prezzo è speciale, solo per te".
Ma non tutti gli emigrati siriani di questa città sono stati collaboratori dello Stato Islamico e Aws, Dua e Asma proteggono gelosamente il loro segreto. Sono senza stato e senza radici e nascondono un passato che potrebbe danneggiarle.
Tutte tre stanno prendendo lezioni di inglese e turco, sperando che un giorno le possa aiutare a pianificare un futuro altrove, magari in una parte più cosmopolita della Turchia. Vivono con le famiglie siriane che sono più consolidate, che conoscevano da prima, o con le quali avevano collegamenti. Le famiglie coprono gran parte del loro costo della vita, e quello che hanno portato con sé è abbastanza per i loro corsi di lingua e le spese quotidiane.
Aws si sveglia e ascolta la cantante libanese Fayrouz mentre fa il suo caffè del mattino. Lei è cauta circa la sua vita sociale qui, ma mostra parte di una nuova galleria di foto sul cellulare che sembra echeggiare la sua vecchia vita a Raqqa, prima che l'Organizzazione prendesse il potere: begli amici e innumerevoli caffè shisha [shisha è un narghilè]. Parla con la sua famiglia attraverso la chat vocale un paio di volte al mese su WhatsApp.
Vuole trovare un modo per finire i suoi studi universitari e per sentirsi normale. "Ma qui, quando cammini per la strada non ti permettono mai di dimenticare che hai dovuto lasciare il tuo paese", ha detto. "Una volta qualcuno ha detto ad un mio amico: 'Se tu fossi un uomo vero, non avresti lasciato il Paese.' Sentire questo mi ha uccisa."
Asma è più timorosa e raramente esce per le vie della città. Ha reciso i contatti con la sua famiglia, preoccupata che i militanti li possano punire per la sua fuga. Una volta alla settimana manda e-mail e chiama un’amica a Raqqa per lamentarsi che la sua famiglia l'ha respinta. Non è vero, ma lei spera che se lo ripete abbastanza spesso la notizia si diffonderà e forse anche i servizi segreti dallo Stato Islamica lo sapranno, così spera di proteggere la sua famiglia da eventuali conseguenze della sua partenza.
Dopo anni di vergogna e di delusione, nessuna delle tre può immaginare di tornare indietro, anche se lo Stato Islamico dovesse cadere. La Raqqa che era la loro casa ormai esiste solo nei loro ricordi.
"Chissà quando i combattimenti si fermeranno?", dice Asma. "La Siria diventerà come la Palestina, ogni anno la gente pensa: 'L'anno prossimo, finirà. Saremo liberi. 'E passano i decenni. La Siria è ormai come una giungla."
"Anche se un giorno le cose torneranno a posto non potrò mai più tornare a Raqqa" dice Aws. "Troppo sangue è stato versato da tutte le parti - non sto parlando solo di ISIS, ma tra tutti".
Una versione di questo articolo appare in stampa il 22 novembre 2015, a pagina A1 del New York Times con il titolo: per le donne ISIS scelte angosciose.
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- Scritto da Stefano
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«È un comandante di formazione partigiana; una vecchia volpe, credo che per farlo parlare dovremo accarezzarlo per bene e fargli un buon contrappelo». Capii che mi avrebbero torturato. Cercai di farmi coraggio. Dovevo essere forte, perchè così erano stati i mille e mille compagni prima di me.
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Per ora come articolo introduttivo abbiamo lasciato questa testimonianza di un partigiano, tratta da: Epopea Partigiana
Antonio Meluschi (a cura di), Epopea partigiana, Bologna, SPER, 1947
http://www.istitutoparri.eu/engine.aspx?o=doc&;doc=224&sez=49&lang=IT
Francesco Leoni – Comandante di Compagnia (Btg. Busi)
(nota: il racconto di Francesco Leoni è citato anche da Ledovino Bonafede)
“Buona notte babbo” … povero babbo mio, non l’ho mai più riveduto … Era un imbrunire freddo, sembrava che anche la natura quella sera fosse contro chi aveva il cuore statico, i nervi tesi, la mente sempre altrove.
Il pensiero era rivolto a quei compagni che da qualche tempo i briganti neri avevano arrestato.
Nel rincasare, frettolosamente perchè dovevo preparare un’opera di sabotaggio da compiere la sera stessa, incontrai Giorgio, il quale mi disse: «hanno trovato il capo della matassa, quelli del battaglione Busi sono scoperti ».
Non volevo crederci, la fede che avevo nei compagni superava ogni dubbio e non mi sgomentai eccessivamente, però un triste presentimento si impossessò di me e sentii che quella sera non avrei agito con lo slancio delle altre volte.
Rincasato, ne parlai con mio figlio, e anche lui fiducioso nei compagni, disse: « se avessero parlato, a quest’ora chissà dove saresti ». Però non ero capace di tranquillizzarmi, e feci avvisare i componenti della mia compagnia che quella sera non saremmo usciti. Erano le 22 circa, quando una suonata di campanello trillò. Mia moglie e la mia bambina impallidirono; mio figlio ed io ci rendemmo conto di quanto stava per succedere. Una nuova ed insistente suonata, e una voce rabbiosa, gridò: « aprite! se non volete morire tutti! ».
Balzai in piedi, mio figlio mi afferrò; voleva fermarmi, gli sfuggii e andai ad aprire; erano « loro » coi passamontagna calati, come portavano i boia di Francia. I primi ad entrare mi spinsero al muro, appoggiandomi qualche cosa al ventre, istintivamente vi posi la mano, sentii qualche cosa di freddo, più freddo della morte; erano le canne dei mitra, e uno dei briganti neri disse: « alza la mano: o ti finisco qui ». Una forte luce mi accecò, poi intesi il grido di chi crede di aver scoperto una grande cosa. « è questo; è nelle nostre mani! ».
Una voce, quella del comandante, ordinò: « caricatelo sul camion ». Mentre stavano per legarmi come gli altri, che già erano sull’automezzo, il comandante con un contro ordine mi fece riportare in casa.
Mi spinsero nella mia camera; là vi era mio figlio in mezzo a due ufficiali della brigata nera; pensai che volessero arrestare anche lui: fortunatamente, lui non sapeva nulla.
Uno di questi ufficiali con voce autorevole mi disse: « se parlerai ti lasciamo a casa! » ; poi, posando la mano sulla pistola, continuò: « diversamente, noi non scherziamo » . Mi sentii la voglia di sputargli in faccia, di offenderlo come si meritava, ma mi sovvenne che nella camera attigua vi era mio padre morente e, fu così che mi limitai, dicendogli di non fare baccano, perchè di là c’era uno che stava male.
« A noi non importa, parla, e dì subito il nome dei tuoi uomini, perché sappiamo che sei comandante di una formazione » . Risposi che non capivo cosa intendessero dire!...
Il mio ragazzo guardandomi voleva dimostrarmi di essere sereno, mentre in lui vedevo la sofferenza del figlio che sa dell’imminente perdita del padre.
Quello che aveva l’aria del comandante ripetè con aria minacciosa : « su, parla, altrimenti imparerai chi sono » . — « Non ho nulla da dire » risposi. — « Caricatelo nuovamente » disse uno che aveva un giubbone alla tedesca.
« Signori », dissi: « nella camera vicina c’è mio padre morente, concedetemni che gli dia la buona notte». Quello del giubbone alla tedesca, con aria di chi sa dare degli ordini, disse: « non abbiamo tempo da perdere, portatelo via ». Povero padre mio, non l’ho mai più riveduto, forse aveva sentito tutto. Dopo cinque giorni mia moglie lo trovava freddo nel suo letto.
Buona notte, babbo, l’eterna notte sia riposante per te: tuo figlio ormai libero te lo augura. Nuovamente mi caricarono sul camion, pensai che la mia vita stava avviandosi verso una prova che in considerazione della mia salute temevo di non affrontare.
Sul camion incominciò una nuova serie di minaccie, confuse promesse: « devi dire dove stanno il commissario e la staffetta, della tua compagnia, così ti riportiamo a casa ». C’era invece chi diceva: « è meglio ammazzarlo, è una vecchia volpe, e da questi si impara poco ». Un altro esclamò con scherno: «patriota di m____, non vuoi parlare, ebbene, ti faremo parlare noi, abbiamo dei sistemi che danno degli effetti meravigliosi ».
Mi venne in mente il famoso detto dei comunisti: (me lo aveva insegnato Gustavo Trombetti) « Quando si deve affrontare un interrogatorio, si pensa di dover subire una operazione chirurgica da sveglio ». Questo ricordo mi rendeva sicuro di me stesso.
Giunti al crocicchio di via Libia e via Oms, dove abitavano il mio commissario Ermete Ghini e la staffetta Bullini Valda, mi fecero scendere.
Nuovamente incominciarono a farmi delle domande, e quello del giubbone alla tedesca, mettendomi la pistola vicino ad un orecchio, disse: «è giunta la tua ora. Parla, o ti uccido». In quell’istante un altro alzò il calcio del moschetto per darmelo sulla testa; se avesse mollato mi avrebbe spaccato il cranio, ma un ufficiale lo fermò, mi venne vicino e con l’aria di chi vuole essere magnanimo mi disse: «non fare il testardo; in fine non siamo quelli che voi ribelli ci credete, non hai che dire dove stanno il commissario e la staffetta e tutto è finito».
«Tenente, gli dissi, non conosco staffette né commissari e ripeto che debbo ancora capire il perché di tutto questo».
Fu dato ordine di portarmi alla scuola di Ingegneria. Là speravano di farmi parlare; caricatomi di nuovo sul camion, furono minacce e ingiurie.
Erano le due circa quando mi tolsero i documenti e mi misero in cella. Avevo molto freddo e una sete irresistibile. Nell’androne del palazzo montavano di guardia le sentinelle tedesche.
Alla destra di chi entra vi erano le camere della morte.
La prigione consisteva in un salone freddo, umido, senza finestre, e, mi sia lecito, dirlo, senza il vaso di decenza. In un angolo vi era un mucchio di cenci e sul momento credetti di essere messo in isolamento. Invece da quel mucchio di cose vidi un uomo muoversi; era un detenuto che si voltava per vedere che cosa succedeva. Mi accorsi che vicino a lui ve ne erano diversi altri, e seppi poi che si stava così ammucchiati per farsi caldo a vicenda.
Dopo usciti i briganti mi furono fatte diverse domande; se venivo dalla montagna o se ero delle formazioni di città. Ritenni prudente non parlare; anche loro cessarono l’indiscrezione, e fui invitato a far parte del mucchio.
Come chi è in un sogno cattivo, mi misi vicino a loro. Sfortunatamente ero col viso vicino a un buco fatto nel pavimento, che serviva per « Buiolo ». Il puzzo mi dava disturbo di stomaco, e la sete si faceva più tormentosa: chiesi se vi era acqua, mi fu risposto che di notte lasciavano sempre senza acqua e molte volte anche di giorno. Guai a bere poco quando passava la guardia con l’acqua, dopo non si beveva più.
Dopo un’ora circa, quattro sgherri mi vennero a prendere. Due di questi avevano il mitra, uno la pistola, e un nervo di bue attorcigliato alla mano.
Dissero forte: «chi è l’ultimo arrivato?». Mi alzai in piedi e con voce sicura risposi : «sono io».
«Il maggiore ti vuole interrogare» , disse uno, «bada di non fare l’idiota, altrimenti sono nerbate e qualcosa di peggio se ci farai perdere tempo». Sforzandomi di mantenermi calmo, chiesi : «cosa vuole il maggiore da me?». «Lo imparerai quando sarai nel suo ufficio» mi risposero. Nell’ufficio vi erano diversi ufficiali, dei graduati, qualche scribacchino e dei piantoni che sgomberavano stoviglie; si capiva che avevano mangiato e bevuto. Per la siesta si divertivano a tormentare quei partigiani che capitavano fra le loro mani.
Tre banchi uso scrittoio formavano metà esagono; seduto al centro vi era il famoso maggiore Raspadori, in un altro scrittoio Berti Martino, ed altri ancora.
Mi fecero sedere al centro dell’ufficio; avevo davanti tutto l’apparato inquisitorio, alle mie spalle due tirapiedi, uno con il nervo e uno con un pezzo di corda in mano, di fianco il boia con una maschera antigas tappata, che, per magnanimità, doveva esser messa solamente tre volte in una sera!
Dopo aver tracannato un bicchier di vino il maggiore chiese a Berti chi ero. «È un comandante di formazione partigiana; una vecchia volpe, credo che per farlo parlare dovremo accarezzarlo per bene e fargli un buon contrappelo». Capii che mi avrebbero torturato. Cercai di farmi coraggio. Dovevo essere forte, perchè così erano stati i mille e mille compagni prima di me.
Il maggiore incominciò col chiedermi: «perché non hai risposto alle domande dei miei subalterni? Non pensare di fare altrettanto con me, perchè ho tre piatti speciali da farti assaggiare!» (i tre piatti consistevano nel nervo, la maschera e il ferro rovente).
Risposi che non mi ero rifiutato di parlare, ma non potevo dire cose che non sapevo. Di questa risposta «il tribunale» fu seccato, e quello del nervo in mano, facendomi annusare quell’arnese da tortura, mi disse «te l’ho detto di non fare l’idiota» . Poi voltandosi verso il Raspadori soggiunse: «comandante, se volete che incominci la danza, io sono già pronto». È ancora presto, disse il maggiore, prima voglio parlare con quell’individuo, poi, con un sorriso, aggiunse: «abbiamo del tempo fin che vogliamo per divertirci». Incominciò la nuova serie di minacce e di improperi; avrei preferito una revolverata e che fosse finita.
Erano in una decina e tutti mi facevano domande, cambiando in falso la mia risposta, tentando continuamente di farmi cadere in contraddizioni, provocandomi una confusione tale che mi sembrava di impazzire.
La sete mi seccava la gola, la luce era sempre più accecante. Ricordo che sentivo spesso il nome di Nerone, di Bolide, e di Napoli; pretendevano che li conoscessi e che sapessi il loro nome vero e proprio.
Dopo due ore circa di questo tormento, Berti Martino disse : «è ora di passare al coercitivo, e farlo cantare». Tutti fecero silenzio, anche il maggiore. Berti continuava ad interrogarmi, dicendomi: «per l’ultima volta ti dico di fare quei nomi che ti abbiamo chiesto, altrimenti vedrai che cosa ti succede».
Come meglio potei, perchè la sete mi aveva fatto venire la lingua grossa, gli dissi: «quando sono entrato nel vostro ufficio, ho creduto di trovarmi di fronte a dei gentiluomini in quanto vedo tutti voi degli altolocati nella gerarchia militare; ma se eseguirete le vostre minacce, dovrò convincermi che l’opinione che vi è sul vostro conto, corrisponde a verità» ; poi soggiunsi: «non ho altro da dirvi. Potete dare ordini di cominciare».
Si guardarono in viso meravigliati, poi Berti seccato disse : «ma basta con queste storie! sembra si sia noi dei fuori legge!». E rivolgendosi al maggiore continuò: «sono già stanco, facciamolo cantare!» . Stavano per spogliarmi e legarmi alla seggiola, quando improvvisamente si udì nel corridoio un fracasso tale che i «boia» si distrassero. Un piantone aprì la porta; due giovani con le mani legate al dorso, furono fatti entrare. Un tenente dei briganti andò verso lo scrittoio di Berti e disse: «li ho presi, sono quelli che hanno ucciso i tuoi fratelli». Berti diventò furente, fece gli occhi più verdi, prese il nervo dalle mani del milite e con quanta forza aveva colpì sul viso quei ragazzi; il più giovane barcollò; l’altro disse: «Non ho mai conosciuto i vostri fratelli». Li fecero spogliare. Legati a cavalcioni su una sedia furono battuti a nerbate, a sangue, contemporaneamente gli venivano chiesti dei nomi. Non parlarono.
Furono slegati, gli misero la maschera ermeticamente chiusa, poi, quando il colore della loro carne si fece di un rosso paonazzo gli fu tolta e per farli rinvenire gli gettavano dell’acqua fredda sul viso.
Per tre volte gli fu fatta l’operazione. Non parlarono. Poveri ragazzi; dopo un’altra inutile serie di domande ci portarono fuori, ci misero in una cella diversa. Non li ho mai più riveduti.
Io fui messo nella cella di prima; era già l’alba quando i miei compagni di cella mi chiesero cosa mi avevano fatto.
Dopo qualche giorno mi accorsi che in un angolo della stanza vi era una macchia color sanguigno. Chiesi che cosa era, mi fu detto che a un certo Mansueto a cui era stata spaccata la testa contro quello spigolo. Nella camera attigua alla nostra vi era la cella per i gappisti.
Avevamo levato una pietra e così potevamo comunicare fra di noi. Una notte sentii degli urli che non erano più urli ma rantoli morente. Levai la pietra per sentire cosa succedeva. Torturavano Guidi Ramon, un gappista. Lo avevano battuto a nerbate ed era svenuto. I boia ritenevano che simulasse; e per accertarsi dello svenimento, lo misero nudo e lo fecero sedere sopra un fornello elettrico acceso. Provai tanto orrore e dolore che piansi non so per quanto tempo. Dopo qualche giorno mi misero nella cella assieme ai gappisti. Fu allora che imparai a conoscere Ramon Guidi (« Stracchino ») che era stato così tremendamente torturato. Con impacchi di acqua fredda cercammo di alleviare il suo male,
finalmente dopo qualche giorno cominciava a star meglio. Fra le tante atrocità viste all’ingegneria, quella che più mi è rimasta impressa è stato il vedere, nell’ufficio dei capitano Pifferi, togliere le scarpe ad un partigiano perchè erano scarpe nuove militari; e per punizione, perchè non diceva dove le aveva prese, gli furono pestati i piedi con un paio di scarponi chiodati all’alpina.
Dopo 17 giorni di questa vita infernale fui portato al purgatorio, cioè nelle carceri di San Giovanni in Monte; ove seppi che ero stato deferito al Tribunale speciale di Bergamo, poi ancora al Tribunale straordinario militare di Milano.
La mattina del 18 aprile, quando le belve nazi-fasciste stavano caricandoci sui camion per portarci oltre il Po, io ed altri fortunati tagliammo la corda.
Sulle torture alla facoltà di ingegneria
Lettura consigliata: Ingegneria in guerra. La Facoltà di Ingegneria di Bologna dalla RSI alla Ricostruzione
27 febbraio 2008 Autore: Renato Sasdelli (a cura di)