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Fernando Piretti,

 

sopravvissuto a Cerpiano

 

 

Testimonianza raccolta da S.Muratori il 19 Marzo 2010

Quando ero piccolo abitavo a Casa Veneziani, dove abitava Musolesi, quello della Stella Rossa, proprio in quella casa lì. Era un casone con quattro o cinque appartamenti. Eravamo tutti affittuari, tanto è vero che mio babbo addirittura io lo vedevo una volta alla settimana perchè non avendo la tessera del fascio lui doveva andare all’elemosina. Quando ritornava portava a casa i crostini che gli davano. Ad un certo punto, quando io avevo sei sette non avendo più i soldi per pagare l’affitto siamo venuti su ai Sassoni, una casa con una terrazza a piano terra, e le cantine sotto. Noi avevamo una camera su di sopra, ma erano spazi piccoli. Anche lì ai Sassoni erano tutti affittuari. I contadini erano più su, all’Infilungo. Dopo la guerra per fare l’autostrada hanno buttato giù sia i Sassoni che l’Infilugo.

Anche ai Sassoni mio padre continuò a fare sempre la solita cosa, andava in giro per vedere se qualcuno gli dava qualcosa. Non avendo la tessera, niente lavoro, e lui non la voleva prendere, non c’era niente da fare. “Piuttosto” diceva, “vado all’elemosina, ma quella lì non la prendo”. Non sò bene il motivo, ma con il fascio non ne voleva sapere.

 

Noi eravamo in sette: c’era Agostino, il marito della Iole qui, poi c’era Giuseppe, poi c’ero io, poi c’erano la Rina e la Teresa, che poi è morta lassù, insieme a me, a Cerpiano.

Io sono stato l’ultimo nato nel 35, e avevo nove anni nel 44.

Io feci le scuole elementari qui a Gardelletta, con la maestra l‘Izzani. Suo marito era un fascista convinto, e quando parlava il Duce per radio bisognava stare sull’attenti. Se uno si trovava lì bisognava stare in silenzio ad ascoltare. Anche noi che eravamo piccoli dovevamo stare sull’attenti con Izzani. Lui faceva il sindacalista.

Quando iniziai ad andare a scuola a Gardelletta Vecchia c’era sia la scuola sia l’asilo. L’asilo lo teneva la Benni. C’era uno stabile ed al piano di sopra c’era la prima e la seconda classe, ed io le avevo fatte tutte due.

 

I genitori di Fernando Piretti

 

Noi eravamo molto poveri, e quando venivo a casa da scuola andavo a fare dei lavoretti per la signorina Benni, quella che si salvò con me. Lei mi faceva fare delle cose, tipo piegare un bussolotto, poi mi dava anche qualche soldino, e quello che mi dava lo tenevo io.

Poi c’era anche un falegname che abitava proprio lì di fianco a noi, poi dopo si trasferì al mulino. Lo chiamavano Poldini: ogniuno aveva il soprannome, il mio era Pippi.

Poldini mi faceva lavorare per insegnarmi a lavorare da falegname, e io lo aiutavo. Lui non mi dava nulla, ma io cercavo di imparare, e mi piaceva anche. Davo la pialla, c’era da incastrare delle cose. A quel tempo si faceva tutto a mano.

Vicino a casa nostra, appena fuori da Gardelletta, passava un fosso che veniva giù da Monte Sole. Nel 44 lì c’era la passerella, perchè il fosso era alto un metro o un metro e mezzo. Quando i partigiani iniziarono ad organizzarsi quel punto diventò un abituale luogo di scontri a fuoco. Successe anche qualcuno uccise un tedesco, e da quel giorno iniziarono a fare rastrellamenti, quasi tutti i giorni. Quindi succedeva spesso che ci fossero scontri con i partigiani, che erano posizionati a Infielugo, dove mio fratello era a fare il garzone, e la mia famiglia a quel tempo riusciva a tirare avanti con quel poco che prendeva lui. Almeno lui era andato a fare il garzone da mio zio.

C’erano spesso degli spari, e I Sassoni rimaneva proprio di fianco al fosso, che era il punto più caldo. Quindi fummo costretti a trasferirci tutti su a Cerpiano.

A Cerpiano eravamo in sei o sette famiglie, e c’era la maestra che teneva dietro ai bambini. Ma non è che ci insegnasse, ci teneva lì per fare qualcosa.

 

La maestra Benni era di Gardelletta, e si era trasferita lassù anche lei, perchè qui in fondo sparavano e la gente diceva:

“almeno andiamo su in montagna che lassù in mezzo chi vuoi che venga a sparare”, perchè qui in fondo con la strada che era un obiettivo dei partigiani c’erano sempre dei combattimenti. Lassù ci dava l’impressione che fosse più sicuro. Cerpiano era un caseggiato con un oratorio, e lì c’erano le suore Orsoline. Ci avevano presi tutti insieme lì, e ci avevano dato una camera per ogni famiglia.

Fra i bambini io ero fra i più anziani, e venni anche interrogato per sapere dov’erano i partigiani. Venivano dei gruppi che parlavano in italiano, ma io non li conoscevo. Mi promettevano una cioccolata, ma io non ho mai accettato. Io avevo i miei fratelli nei partigiani, e non ci pensavo nemmeno di dirgli dove si trovavano.

A Cerpiano qualche volta i partigiani li ho visti da lontano. I miei fratelli venivano a trovarci, ma rimanevano due o tre minuti poi tornavano via. Magari potevano essere su a Monte Sole, ma da Cerpiano a Monte Sole ci sono dei chilometri.

La verità è che i partigiani non avevano più munizioni, tanto è vero che i miei tre fratelli quando a Castiglion dei Pepoli hanno imparato che i tedeschi avevano fatto la strage volevano tornare indietro. Poi li hanno convinti a lasciare stare, perchè li avevano già uccisi, poi non avevano le munizioni. Sono poi andati in Toscana, con tutto il gruppo, per trovarsi vicino agli americani.

 

Fernando Piretti in una foto pubblicata

da Gente dopo la liberazione

Piretti nella posizione nella quale si trovava

con la madre e la sorella il giorno del massacro

 

Piretti indica la porta laterale nella quale

venne ucciso il contadino

 

Quando fecero il massacro di Cerpiano io ero dentro con tutti gli altri, e fui ferito in una spalla.

Io ero vicino a mia mamma e ci trovavamo di lato vicini alla parete. C’era molta gente e non si vedeva che cosa succedesse. Davanti alla porta avevano piazzato una mitraglia. Ad un certo punti dissero: “tutti kaput”. Allora io lo chiesi a mia madre:

“cosa vuole dire”

“ah, qui hanno detto che ci ammazzano tutti”.

Oh, comunque io ho avuto questa ferita, appena forata la pelle, ma non è che sia rimasta la pallottola dentro. Però per me è passata prima da mia madre, poi siccome ero lì di fianco a lei è finita lì.

Ma quelli davanti alla porta erano tutti tagliati a metà sai ?

Perchè avevano messo questa mitraglia lì a due metri, alla distanza dalla porta all’uscita erano due metri.

 

C’era anche il padrone dell’Infielugo, che era sempre stato un fascista, e lui gli fece vedere la tessera del fascio, allora il tedesco gli chiese con ironia:

“perchè tu avere la tessera e essere qui in mezzo ai partigiani ?”

Lui non era l’unico uomo, perché c’era anche il contadino.

Questo contadino voleva uscire dalla porticina che dietro all’oratorio porta alla canonica. Qualcuno infatti aveva liberato le mucche prima che il fienile e la stalla fossero incendiati e le mucche erano andate nella “spagna” fresca. Allora questo contadino disse:

“aspetta che se le mucche mangiano lì scoppiano tutte”.

Lui voleva solo andare a mandare via queste mucche. Figurati che loro erano andati a dare fuoco anche al fienile, la stalla e tutto, ma almeno lì avevano dato la molla alle bestie, e loro andavano a mangiare dove c’era la roba buona. Questo contadino pensava alle mucche. Gli diedero un colpo proprio sulla porta, ed è rimasto lì di traverso sul gradino.

Subito dopo il massacro cercammo di andare via da Cerpiano, speravamo di passare di là dal fiume, invece sopra a Campo Lungo ci hanno bloccati. A Campo Lungo, sopra alla galleria, c’era un terreno pari, però c’era una postazione scavata sotto. Avevano messo sopra degli scuri, e loro stavano lì sotto. Noi eravamo partiti alla mattina presto, e non si vedeva nessuno. Il bosco ci copriva, solo che quando arrivammo lì si alzarono gli scuri e ci bloccarono. Rimanemmo tutto il giorno dentro alla postazione, ed alla sera ci fecero andare giù, nella galleria lì sotto dove c’era una gran puzza di morto, e c’era il loro comando.

Dal comando poi cominciarono a caricare le munizioni per farcele portare su a Cerpiano. Siamo tornati su a Cerpiano, poi da cerpiano a Casaglia, poi siamo andati giù a Caprara. Sempre a piedi, che io perdevo le scarpe nel fango che c’era. Due tre volte mi sono fermato a prenderle su, perchè si piantavano. Facevano portare le munizioni a mio babbo.

Così dopo che ebbero fatto il massacro ci fecero rimanere a Cerpiano ancora due o tre mesi, per portare su le loro munizioni.

Ci avevano fatti sistemare di nuovo a Cerpiano, nel palazzo. Quella casa era di tre piani, ed era la più bella. C’eravamo io, mio babbo e quelle altre persone che erano nel rifugio, e perciò si erano salvate. Seppellimmo tutti nella buca comune, tutti insieme lì di fianco all’oratorio.

 

Fernando indica la posizione nella quale fu fatta la fossa comune

Fernando indica i nomi della madre e della sorella

sulla lapide posta all'ingresso dell'Oratorio

 

Pensa che il rifugio era vicinissimo, qui c’era Cerpiano, andavi un pò in là poi era lì, a cinquanta metri, e i tedeschi non ci sono micca andati su, perchè era un pò in mezzo al bosco ed avevano paura di qualche cecchino. Il rifugio comunque era profondo solo cinque o sei metri, e non sarebbe stato possibile entraci in tanti.

Ora, a strage finita, i tedeschi trattenevano gli uomini per fargli trasportare le munizioni sulle montagne, e le donne per farsi servire, facendogli fare da mangiare, poi di notte le violentavano.

Quando poi gli americani cominciarono a bombardare la casa, dai piani sopra ci misero in cantina.

Dopo pochi giorni dalla strage arrivò anche Reader, che aveva trasferito il suo posto di comando da casa dei Zanini a Cerpiano.

Appena arrivato disse alle donne: “venite su a fare da mangiare”

Dissi io:

“stai a vedere che ci vuole ammazzare un’altra volta”

Invece per le donne, alla sera dopo mangiato, le mandavano indietro nude, quindi vuole dire che qualcosa era successo. Addirittura una ragazza, la Dainesi, noi la nascondavamo sotto a un tino, perchè sennò avrebbero preso anche lei, che era ancora giovane, aveva quattordici o quindici anni. Le donne invece, dopo fatto da mangiare....

Anche il prete di Sasso è un Zanini, ed è venuto due o tre volte a chiedere il perdono. “Cosa cerchi: dare il perdono ? dico, dare il perdono ? bè oh, cosa gli ha fatto mia madre ? e mia sorella cosa gli faceva ? Cosa avevano fatto per andarle ad ammazzare ?”

“Io debbo perdonare ? Io non perdono niente”

Ad un certo punto iniziarono ad arrivare cannonate sempre più vicine alle case. Prima di riuscire a prendere la mira con le cannonate era passato del tempo, perchè certamente gli americani avevano qualche osservatore che gli diceva: “più in alto, più in basso”

Ed infine anche dalla cantina ci mandarono via. Quando cominciarono a colpire le case di Cerpiano ci dissero: “potete andare, perchè in cantina ci veniamo noi”. Infatti quando la centrarono la casa venne giù tutta.

Reader rimase lì fino all’ultimo giorno che io rimasi lì.

Quando andammo via ad ogni postazione di tedeschi dovevamo dare la parola d’ordine, perchè nonostante fossimo insieme a dei tedeschi che ci accompagnavano, per assicurarsi che non fossero tedeschi fasulli si doveva sempre dare la parola d’ordine all’altolà. Poi il nostro accompagnatore gli spiegava che doveva accompagnarci via. C’erano sei o sette postazioni lungo la strada che da lì ci portò a Marzabotto. Poi da Marzabotto ci caricarono con un camion ed andammo ai Gessi, che è di là da Mongardino. Ricordo che una notte arrivò un allarme e ci fecero andare tutti dentro al campanile, cosa che mi stupì, ma evidentemente secondo loro era più sicuro. Passammo una notte dentro al campanile, poi il mattino seguente ci tornarono a caricare poi ci portarono su a Mongardino.

Io ero rimasto assieme a mio babbo. Ad un certo punto ci liberarono, ci dissero che potevamo andare via. Allora andammo giù da Mongardino a piedi dalla parte di Gesso. Ricordo che nell’andare in giù vedemmo un partigiano impiccato alla quercia che c’è nella curva. Quella quercia c’è ancora, e la chiamano la quercia dell’impiccato.

Andammo giù dal Gesso, poi a Casalecchio ed attraversammo Bologna. Quando arrivammo a Bologna mio babbo iniziò a sentirsi poco bene, e decise di andare all’ospedale. Lo aspettai a lungo, però da lì non uscì più fuori. Lui aveva il diabete, ma si trascurava, e dopo 15 giorni morì.

Così mi ritrovai con un’altro fratello più giovane, e assieme andammo a Medicina da mia sorella che aveva sposato un militare di guardia alla Direttissima.

Per arrivare a Medicina impiegammo 3 giorni.

A Medicina eravamo insieme ai contadini. Mio cognato faceva il sorvegliante: teneva dietro alle donne della risaia. Anch’io ho fatto una stagione a raccogliere il riso, anche se ero un ancora bimbo. Poi un chilo di riso spettava anche a me, non so se era un chilo o mezzo chilo. Tutti i giorni un chilo di riso a testa, poi mi pagavano anche.

Dopo sei sette mesi siamo tornati su.

Dopo il ritorno a Gardelletta andammo per un periodo a San Giorgio di Piano.

Era passato un anno dalla strage quando andai là, assieme a mia moglie e tanti altri.

Era una organizzazione per aiutare i montanari, e per tre mesi ci prendevano come loro figli, siamo stati ospitati nelle case di queste persone.

Erano un gruppo di comunisti che si erano radunati insieme ed avevano fatto la richiesta di prendere un bambino di Marzabotto, per tre mesi. In quel libro dei ragazzi del 44 c’è scritto.

Con mia moglie ci conoscevamo già, ma abbiamo passato assieme anche quel periodo lì.

Quando andai a San Giorgio avevo già fatto la terza, perchè laggiù me la fecero ripetere tutta. Si vede che là erano più avanti. Quando arrivai là mi interrogarono un pò e poi mi chiesero: “allora che cosa vuoi fare: vuoi fare la terza o ti mettiamo in seconda”. Praticamente mi retrocessero in seconda.

Ricordo che c’erano i preti che dicevano: “non mandateli perchè giù di lì sono tutti comunisti”

E poi dicevano che ci avrebbero presi per metterci dentro al forno!

Una volta guarda, la gente era così.

Noi andavamo giù per mangiare qualcosa anche durante l’inverno, perchè qui non c’era un cavolo, hai capito.

Dopo poi tornammo qui in quel palazzo lì di fronte alla bottega.

 

Festa a San Giorgio di Piano con i Bambini di Marzabotto

 

I genitori non li avevo più, avevo una cognata che si è sposata con mio fratello, ed abitavamo tutti in una famiglia dentro a quella casona lì, di fronte al negozio. Io poi ho continuato la scuola fino alla quinta elementare.

Prima di andare in posta ero a casa, facevo delle domande. Lo stato mi dava 6.000 lire al mese, come orfano di guerra. A diciassette anni e mezzo però non mi è più arrivato nulla, perchè si vede che avevano già accettato la domanda alle poste, non lo so, solo che un bel giorno è sparito tutto.

Quindi ho avuto un periodo in cui non ho più avuto nulla.

A 18 anni fui assunto alle poste, e feci due anni e mezzo il fattorino, poi mi chiesero se sapevo fare qualche mestiere. Io dissi: “ho fatto il falegname”.

Perchè su all’economato c’era da fare di tutto: da aggiustare delle porte, mettere su dei vetri, aggiustare delle chiavi, per la cassette della posta. Quando le chiavi si rompevano io le rifacevo a mano, con la lima. E le facevo uguali.

Mi sono sposato a 30 anni. Poi sono riuscito anche a farmi questa casa qui. E’ tutta qui la casa.

Dopo anche nelle poste ho fatto il falegname, che l’ho fatto per parecchi anni. Io prendevo sei mila lire più della paga, per extra lavoro, solo che io ne prendevo 6000, invece i portalettere ne prendevano 9000. Dico: “allora che cosa sto qui a fare, vado a fare il portalettere anch’io, almeno sono tre quattro mila lire in più.

Facevo il postino a Gaibòla, sui colli. Andavo a dare la posta, ma nello stesso tempo facevo un altro lavoro qui: facevo le canne da pesca. Montavamo le canne telescopiche. Io per avere un pò di libertà andavo in quel posto lì che ci mettevo due ore, con la macchina, poi prima di rientrare andavo in magazzino a prendere le canne; poi andavo a Bologna a consegnare la borsa e infine venivo a casa. Perchè allora si faceva mezza giornata. La strada era lunga, ma con la macchina si andava bene, e non c’era tanta roba. Però era scomodo perchè a volte dovevo fare trenta chilometri e più. Da qui a Bologna giù in ferrovia, poi dovevo venire sui Colli e andare fino a Paderno, dove c’è l’albergo, poi dovevo andare anche un pezzo più in là. Dovevo andare giù, perchè i contadini erano sparsi di quà e di là: insomma facevo un casino di chilometri, ma avevo messo insieme una macchina con il metano, con le bombole. Anche con la neve dovevo andare su. Una volta ho preso anche un verbale perchè non ho portato il giornale a una signora.

“Guardi che il giornale, signora, se non me lo danno non posso micca portarglielo”

Avevano fatto sciopero il Carlino: “E’ il Carlino che ....”

Lei voleva il giornale, allora ha reclamato giù alle poste. Andavo fino vicino a Pianoro, bè se non c’è il Carlino debbo andare fino lassù lo stesso?

Io ho sempre fatto il mio dovere, però questa qui. Bè dopo c’è andato un’altro in quel posto lì.

Adesso passo da pensionato.

Io ho lavorato in posta dal 53 all’80. Mi hanno dato i 7 anni di abbuono, ma poi mi hanno tenuto giù dalla pensione.

Vado a funghi, vado a pescare, perchè io facevo le canne da pesca. Però vado ai laghetti, perchè tanto nel fiume non si vede più un pesce. Fra gli aironi, i gabbiani, quelli lì puliscono tuttò eh ? I pesci più grossi li hanno fatti fuori tutti. Una volta tre anni fa si prendevano dei Barbi così, adesso non si vede più niente. Cosa vado a pescare a fare? per prendere della Quadella ? Poi anzi, neanche la quadella. I Barbi di 18 centimetri addio! Perchè non ci andate voi là a prendere un Barbo di 18 centimetri.

Ho un figlio. Poi ho quello lì, un Labrador maschio, che è come un figlio. Però quando deve mangiare .....

Adesso ti offro da bere. Ti dò un amaro: amaro Felsinea, della Buton, me lo passava mio cognato che aveva il negozio.

 

 

 

 

 

Da Marzabotto Parla, di Renato Giorgi

edito nel 1955

 

Nell'oratorio di Cerpiano ammucchiano 49 persone, di cui 19 bimbi e 25 donne. I bimbi sono messi in fila contro il muro esterno e con pro­messe di cibo e danaro a lungo invitati prima, e minacciati poi, a dire quanto sanno dei partigiani. I bimbi non parlano e vengono di nuovo scaraventati nell'oratorio. Segue subito un primo lancio di bombe che assassina trenta persone.

 

Poi le ss decidono di riposare e a lungo gozzovigliano fuori dall'ora­torio. I lamenti di una ferita agonizzante li disturba.

 

È la signora Nina Fabbroni Fabbris di Bologna che un nazista si af­fretta a finire. Emilia Tossani e il vecchio Pietro Orlandi con la nipote tentano la fuga: vanno poco oltre la soglia. I nazisti possono gozzoviglia­re tranquilli. Fernando Piretti, di otto anni, si salva, e credendo che i na­zisti siano lontani, estrae di sotto il corpo della madre la bimba Paola Rossi di sei anni, anch'essa viva. Ma i nazisti tornano e la maestra Anto­nietta Benni, terza fortunosamente incolume, è ancora in tempo ad oc­cultare i due bambini sotto una coperta.

 

"Ero maestra d'asilo nel paesino di montagna – riferisce la maestra Benni – La mattina era tetra e fredda, come accade in montagna quan­do piove. Prima delle 8 del 29 settembre i nazisti piombarono tra le case, vi fecero uscire tutti all'aperto e ci rinchiusero nell'oratorio. Eravamo in molti, quarantanove, tutti donne, vecchi e bambini.

 

Speravamo che non ci facessero niente. Invece dopo un po' si aprì la porta e comparvero alcuni nazisti dalle facce paurose, che stringevano per il manico le bombe a mano e guardavano verso di noi come chi sce­glie un bersaglio. "Gente, dite l'atto di dolore, che ci ammazzano tutti!", gridai io. Dalla porta e dalla finestra cominciarono a scagliare su di noi le bombe a mano: noi si urlava, piangeva, implorava, le madri stringevano a sé i figlioli, i bimbi si rannicchiavano sui petti delle madri, nascondendo il viso e cercando scampo. Io caddi svenuta.

 

Quando tornai ad aprire gli occhi: "Sei viva?", "Sei morta?", sentii bisbigliare con voce affranta nell'oratorio quasi buio, e i pianti desolati delle donne e i lamenti dei feriti, strazianti si levavano intorno a me. Dovevano già essere morte una trentina di persone, quasi tutti gli altri feriti da schegge. Tutto il giorno i nazisti rimasero di sentinella fuori dall'oratorio, e tutta la notte. Avevano fatto dei buchi alla porta, guar­davano dentro e ridevano. Di quando in quando le sentinelle entravano e finivano i feriti a colpi di rivoltella. Fuori si sentiva una grande con­fusione: erano i nazisti ubriachi che suonavano la fisarmonica e canta­vano a squarciagola.

 

Durante la notte una donna, che forse fino a quel momento era ri­masta priva di sensi, cominciò a gemere supplicando che le portasse­ro via il marito caduto a bocconi sopra di lei. Comparve una senti­nella, sentii rintronare un colpo di pistola accompagnato da una sghi­gnazzata. Da quel momento nessuna voce si levò più da quell'orribi­le carnaio.

 

Frattanto un maiale affamato, che la sentinella aveva lasciato entrare nell'oratorio, grufolava rovistando tra il cumulo di cadaveri e mordeva le carni dei morti. Un vecchietto tentò di fuggire dalla porta tirandosi la nipotina per mano: li ammazzarono immediatamente.

 

La mattina del 30 settembre i superstiti supplicavano: "Lasciateci anda­re fuori, abbiate pietà di noi!". "Tra venti minuti tutti kaput", fu la rispo­sta dei nazisti. Come avevano detto, dopo venti minuti seguì la strage.

 

Ci salvammo solo io e i due bimbi Paola Rossi e Fernando Piret­ti. "Anche la mamma è morta, anche la nonna!", singhiozzavano i bimbi disperati, inginocchiati sui cadaveri dei loro cari. Stavamo per uscire dall'oratorio, quando ci accorgemmo che le ss ritornavano. Nascosi in fretta i due bimbi sotto una coperta, raccomandai loro di non muoversi, e mi finsi morta tra i cadaveri. I nazisti entrarono per controllare che tutti fossero morti e per depredare i cadaveri. A me sentirono la mano, che per fortuna era gelida, e mi strapparono la borsetta.

 

Più tardi sopraggiunse un giovane di Vado, Francesco Lamberti, che mi portò in salvo con i due bimbi. Di lì a qualche giorno, nella casa do­ve mi ero rifugiata, arrivarono ancora i nazisti e io credevo fossero ve­nuti a prendermi; vennero invece ad avvertirci che tra poco avrebbero seppellito le persone dell'oratorio, "uccise dai partigiani", dissero. C'era anche il maggiore monco, Reder, lo ricordo bene".

 

 

 

Dal libro Il Massacro di Baldissara e Pezzino

 

Il ritorno di Reder a Cerpiano è ricordato anche per le violenze sessuali alle quali lui e i suoi ufficiali (in particolare il medico Schildbach) sottoposero alcune donne, che erano state prese nel rifugio vicino a Cerpiano e portate nella cantina della casa dove era stato fissato il posto di comando e di medicazione. Due di loro erano sopravvissute, con ferite, ai massacri della zona-una terza avrebbe perso il figlio per le ferite riportate; quattro delle cinque donne li presenti denunciarono la violenza subita_ la quinta, che aveva quindici anni, nella sua testimonianza non farà mai cenno a questa seconda tappa del suo calvario. Diamo la parola a una delle due sorelle che fu costretta a rapporti sessuali dai tedeschi: la seconda notte «gli ufficiali scesero in cantina ove io dormivo con gli altri civili e fecero alzare alcune delle donne comprese mia sorella [...1 e me, e ci fecero andar sopra. Fummo costrette a spogliarci, e una essendosi rifiutata‑

 

venne spogliata e le bruciarono gli abiti». Ecco la testimonianza di quest'ultima:

 

Quattro militari vennero a svegliarci dicendo che per ordine del comandante dovevamo andare in cucina per far da mangiare e lavare le stoviglie. A ciò fummo obbligate io, le [due sorelle] e la [ ... ] Avevo tentato di oppormi ma due di questi soldati più volte mi scoprirono e mi obbliga­rono ad alzarmi. Giunta in cucina un militare, che non so dire se soldato, graduato od ufficiale, mi strappò la veste buttandola nel fuoco. Io cercai di fare resistenza, ma il militare, minacciandomi di morte con la parola caput, mi costrinse a cedere alle sue voglie malgrado che io gli facessi presente di essere una donna anziana [aveva trentasette anni]. Mentre io entravo in cucina vidi uscire le sorelle [ ... ] tra due militari e mi parve che anche esse avessero le vesti strappate. Io ritornai in cantina dopo circa un'ora,

 

   
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