Il 25 Aprile a San Martino Nichi Vendola ha fatto un discorso che contiene molti spunti di riflessione: sull'origine del fascismo, sull'industria dello sterminio, sulla resistenza e sui giorni nostri. Non tutti forse lo hanno potuto ascoltare, allora ho pensato di riproporlo qui, con filmato e trascrizione del discorso.
Le foto: Bruno Veronesi, Presidente ANPI Marzabotto; Un momento della manifestazione a San Martino; Vendola con Valter Cardi, Presidente Comitato Oneranze ai Caduti di Marzabotto; Il folto pubblico vicino al cimitero di San Martino; Niky Vendola, Olga D'Antona, e Romano Franchi;
25 Aprile 2010 a San Martino: perché i “valori della Resistenza” sono così deboli di fronte agli attacchi del “revisionismo” ?
Viviamo tempi di amarezza e di inquietudine, in cui si ha la sensazione che la storia e la memoria siano precipitate in un buco nero; si ha la sensazione di vivere nel regime dell’oblio, della dimenticanza obbligatoria; di fronte a una sorta di Blob, fotogrammi del passato che si mescolano e si confondono; non ci consentono più di esercitare il dovere del discernimento; la capacità di avere giudizi sfogliando l’album delle storie nostre, ripercorrendo la narrazione di quella epopea straordinaria che fu una guerra di popolo e una guerra di liberazione. Si ha la sensazione che tutto oggi sia ridotto a un’indistinto, a una sequela di cose lontane, poco significative.
Ci sono delle strane attitudini nei frequentatori di cimiteri …nei frequentatori da talk show dei cimiteri. C’è la voglia di mettere tutto insieme, il torto e la ragione, la storia di chi morì lottando per la libertà, e la storia di chi militava dalla parte del nazifascismo. Viceversa questi strani frequentatori di cimiteri cercano invece di distinguere le tombe di coloro che lottarono per la libertà. Ho visto anche di recente in televisione delle puntate molto maliziose, tese a raccontare una resistenza buona e una resistenza cattiva. E vedete, lì no, li non si può proseguire. Li è sacrilegio. Furono tutti i nostri morti. Comunisti, Socialisti, Cattolici, Liberali, Azionisti, Monarchici …. Non ci fu una resistenza buona e una resistenza cattiva. Ci fu una storia drammatica che ruppe la vergogna di un ventennio nero, che era stata la reazione delle classi dirigenti alla domanda di libertà che era sgorgata nel cuore del mondo del lavoro.
Il fascismo fu questo. Il tentativo di bloccare l’avanzata del movimento operaio.
Nelle campagne della mia terra, e nelle fabbriche del nord, povera gente, censita sotto la voce plebe, si era trasformata in un moderno proletariato rurale e urbano, che aveva cominciato a prendere confidenza con una parola che le oligarchie e i filosofi avevano considerato retaggio castale: la parola libertà. Una proprietà, un reddito, una condizione sociale. La libertà dei Cafoni di Puglia, la libertà di coloro che il mercato del lavoro lo incrociavano nelle albe primo-novecentesche sotto il giogo del caporale. La libertà di chi ogni giorno davanti ai cancelli di una fabbrica cercava di guadagnare il proprio pane. Era una libertà imprevista, era la libertà dal basso, è come vedere l’erba dalla parte delle radici, per citare la metafora di un grande partigiano come fu Davide Lajolo, comandante Ulisse; la libertà che è il pane che tutti insieme possiamo mangiare e condividere. Irrompeva nell’agone della storia questa libertà, e dava voce a un protagonista che non eravamo abituati ad ascoltare, un popolo nuovo, quello che nel risorgimento aveva avuto un ruolo residuale, e che invece nella guerra di liberazione diventa protagonista decisivo: il popolo Italiano. Un popolo fatto di braccianti e di operai, un popolo di classi subalterne che seppero colloquiare con intellettuali e con borghesi, riimmaginando insieme un patriottismo che non fosse quello che viene celebrato con bolsa e insopportabile retorica, con dissipazione di gagliardetti e di inni nazionali, magari per difendere anche la vergogna delle guerre coloniali e dell’aggressione a popolazioni inermi. Il patriottismo è terreno scivoloso, è luogo di furbizie semantiche, è luogo in cui imperversa la mafia delle parole. Il patriottismo non è rivendicare la nobiltà del sangue e le prerogative della terra; il patriottismo è sentirsi abitanti della patria unica che è il nostro pianeta. E oggi la più grande forma …. permettete che io lo dica con consapevole vis polemica …. La più grande forma di patriottismo nel nostro paese è quella che esprime Emergency e Gino Strada.
Nella sua meravigliosa “Storia degli Italiani” lo storico Giuliano Procacci mette in epigrafe una citazione da un libro di Cesare Pavese, “Il Compagno”, è il dialogo fra un cittadino e un confinato politico:
“lei ama l’Italia” ……
questa è la domanda che viene rivolta al confinato politico, che guarda il suo interlocutore e dice:
“amo gli Italiani!”
Per dire che una patria che non sia una comunità, e un patriottismo che non sia l’annuncio della comunanza nell’esecizio dei diritti e dei doveri è un partiottismo pericoloso, come è pericoloso il patriottismo delle piccole patrie, delle enclave etniche, di coloro che reiterno codici …..
Il fascismo fu la risposta che gli agrari del Sud e gli industriali del Nord diedero a questa domanda di libertà che viveva nella vita della povera gente. Badate, era una domanda molto semplice, per quelli che ho conosciuto meglio io, braccianti e analfabeti della mia terra, era semplicemente rendersi conto che morire di pellagra, dormire in 15 nello stesso unico ambiente insieme all’asino, non era frutto una volontà del cielo, era frutto di relazioni sociali, di processi storici, di una gerarchia violenta che voleva che qualcuno fosse molti gradini più su, e quasi tutti gli altri molti gradini più giù. E questa consapevolezza dava a tanta povera gente l’orgoglio di una nuova identità. Vedete, il vecchio liberale che si affaccia dal balcone della sua biblioteca nel centro storico di Napoli, don Benedetto Croce, vede gli abitanti dei "bassi" e usa una espressione non molto gentile nei confronto di quello che si chiamava un tempo “popolino”:
“volti tondi e lisci come palle di bigliardo” bassi
Non vede il volto; la folla è una entità indistinta. Chi ha paura delle masse popolari le rappresenta con immagini mitologiche e mostruose.
E invece quella folla, quel popolino quella plebe, seppe nella battaglia per la libertà e la democrazia, recuperare, riprendersi il proprio volto, e ogniuno di quei nomi e di quei volti ha costruito giorno dopo giorno la gloria e l’onore della democrazia repubblicana in questa lunga storia.
Imparammo anche a leggere cosa potesse consentire a una nuova industria, quella dello sterminio, di diventare l’apparato militare e industriale di quella “Mitteleuropa” che pareva vocata alla modernità e a guidare l’incivilimento del mondo.
Badate, quello che è accaduto deve ancora interrogarci duramente. Il Nazifascismo non ha fatto le proprie prove generali in una condizione periferica e tribale del mondo: ma qui, nel cuore del continente della modernità. Quel vecchio continente che aveva conosciuto la Rivoluzione Francese, e l’annuncio di una civiltà illuminata dalla ragione. E invece nel cuore di quel secolo che avrebbe dovuto generalizzare il governo della ragione, che avrebbe dovuto illuminare la vita quotidiana con i valori della ragione, accadde che proprio lì ….
Pensate, Auschwitz, a due passi dalla bomboniera più bella d’Europa, Cracovia.
Pensate, quei campi di sterminio sono una sequenza che disegna un pezzo tra i più avanzati e moderni della nostra Europa. Fu lì, nel cuore del secolo della modernità che fu pensata l’industria dello sterminio. E quell’industria fu tanto efficace perché fu preparata da un mutamento straordinariamente sagace del significato delle parole. Fu preparata da questo spostamento quotidiano della soglia delle parole. Quando le parole, che sono soltanto apparentemente innocenti, e qualcuno le immagina neutre, vengono usate come corpi contundenti per indicare in un pezzo dell’umanità, in un frammento del genere umano, un nemico, una minaccia, un’icona spaventevole.
Badate, noi abbiamo visto l’Italia della vergogna a Ponticelli e a Rosarno, e dobbiamo sapere che lì …. lì si è smarrito il nostro vocabolario. I codici civili della nostra storia, il nostro patriottismo ha preso una piega inquietante e un po’ … loffia.
E allora dobbiamo tornare a chiedere: “come è potuto accadere”.
Una filosofa ebrea e tedesca come Anna Harent, nel raccontare il processo ad Eichmann, al grande burocrate della macchina dello sterminio, ha introdotto una nozione che ci serve molto oggi: “la banalità del male”.
Il Nazismo, il Fascismo … furono possibili e furono conseguiti con il Plebiscito, con uno straordinario consenso culturale. Ebbero una forza egemonica straordinaria perché il loro vocabolario diede una identità cattiva e malvagia a un momento di crisi e di transizione di comunità importanti del vecchio continente.
Capite cosa voglio dire ?
Voglio dire che la banalità del male è esattamente quella cattiva tentazione, quella tentazione diabolica, con cui noi conviviamo. Abbiamo, amici e amiche, il torto di avere trasformato il 25 di Aprile in una immagine oleografica. Abbiamo il torto di aver fatto dei valori della costituzione un richiamo retorico.
Mentre la costituzione veniva giorno dopo giorno stracciata nei suoi articoli fondamentali e nel suo significato storico, noi non siamo stati in grado di spiegare, di narrare alle giovani generazioni che non stavamo raccontando una stagione della nostalgia, ma che stavamo parlando del futuro raccontando quel passato.
Che l’articolo 1 della Costituzione è incompatibile con i processi di precarizzazione del mercato del lavoro. Che l’articolo 3 è incompatibile con le leggi razziali che sono state volute negli ultimi anni in questo paese. Che l’articolo 11 è incompatibile con l’attuale nostra presenza bellica in teatri in cui annunciammo la nostra volontà di peacekeeping.
Ma poi vedo che gli attuali responsabili del dicastero della difesa non si vergognano di svelare che la peacekeeping è semplicemente una foglia di fico. C’è una “war keeping”, c’è una partecipazione esplicita a un teatro di guerra.
E questo lo dico perché l’aticolo 11 fu molto pensato dai nostri costituenti. Il verbo che adoperarono, lo dico per aver sentito una bellissima citazione nella introduzione religiosa di questa manifestazione, che è la citazione del pensiero del più estremista dei pacifisti, cioè del profeta Isaia.
I padri costituenti usarono un verbo di pregnanza veterotestamentaria. Un robusto verbo biblico: “ripudiare”.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
Ripudiarono. Allontanarono con sdegno davanti ai propri occhi l’immagine della guerra. Perché davanti ai loro occhi c’era un intero continente trasformato in un gigantesco mattatoio. La grande guerra, quell’unica grande guerra che dal 1915 al 1945 aveva trasformato la vecchia Europa in un condendsato di tutte le barbarie della storia umana trasponendole sul terreno della loro evoluzione industriale.
L’antico artigianato dell’uccisione, l’estetica del corpo a corpo diventa invece la raffinatezza dello sterminio industriale, della tecnologia della morte, che tra Aschwitz ed Hiroshima fa le proprie più stupefacenti prove.
E allora siamo qui a ricordare.
Badate, ripeto, non un esercizio di retorica, non un esercizio di nostalgia.
Ricordare dal punto di vista di chi sa quanto siano preziosi quei valori, quanto siano fondative quelle storie. Cancellare la memoria significa costringerci a vivere nel presente che diventa una spece di palude, tutti bloccati nel presente senza poter fare un passo indietro a interrogare le storie di ieri, e quindi senza poter fare un passo in avanti, a immaginare un mondo migliore, a immaginare una società più gentile, a immaginare rapporti tra uomini e donne, tra popoli, tra gli umani e la natura, segnati da un’altra cultura.
Ecco, che fare: io penso questo, penso che noi dobbiamo rivolgerci senza rancore, non con il risentimento degli sconfitti, ma con il cuore di chi sa scrutare gli orizzonti nuovi della speranza. Dobbiamo rivolgerci alle giovani generazioni e saper annunciare la resistenza necessaria dei tempi nostri.
La resistenza necessaria dei tempi nostri si fa non clonando modelli del passato. I nostri partigiani, coloro che qui su questi appennini seppero diventare combattenti ed eroi non studiarono un modello da applicare, costruirono col buon senso, col buon cuore, con la buona intelligenza un modello di lotta.
A noi tocca immaginare la lotta dei giorni nostri. Io penso che la lotta fondamentale è quella delle idee e per le idee. E’ quella che oggi per esempio ci consente di ribellarci a una lettura della resistenza che la riduce a un paragrafo della conquista americana del mondo. Noi che fummo e siamo così grati agli alleati americani e non solo americani che vennero nel teatro europeo a combattere per la libertà, non possiamo naturalmente non mettere in quella straordinaria storia di martirio e di onore i partigiani, a cominciare da quelli della Stella Rossa, di queste campagne, di queste montagne.
E poi io penso che la resistenza del futuro è quella che deve mettere al centro il tema della violenza. Della violenza in tutte le sue forme. Della violenza del potere, della violenza di chiunque possa esercitare potere nei confronti di qualcun altro. La violenza che noi vorremmo o dovremmo trasformare in un tabù.
Vedete, sono passati tanti anni, pensavamo di avere imparato tante cose, e invece vediamo che è la violenza che è capace di modernizzarsi, che è capace di mettere insieme codici arcaici e codici post-moderni. Di inventare strani connubi tra i diversi evi. Abbiamo assistito allo sgozzamento rituale del nemico videoripreso, perché il videotape diventa uno strumento di replicazione di immagini di onnipotenza.
La verità è che finchè il genere umano penserà di dover sfidare Dio detronizzandolo per esercitare non la propria responsabilità, ma un delirio di onnipotenza. Finchè accadrà questo, nell’economia, nella politica, nella statualità, persino nei rapporti tra i singoli individui, noi saremo ancora schiavi di un mondo cattivo. Per annunciare un mondo nuovo dobbiamo abbattere le barriere che rendono gli individui discriminati e discriminanti. Dobbiamo immaginare ……
Ancora oggi fischia il vento, infuria la bufera. Ma non è vero, non è vero che abbiamo le scarpe rotte. Abbiamo le scarpe griffate. E a volte abbiamo griffato tutto. Abbiamo griffato l’immaginario, qualche volta perfino la coscienza. Una buona firma è diventata il surrogato di una buona vita.
La buona vita è quella che ci rammenta i nostri doveri.
Per esempio permettete a me di concludere tornando un attimo su quella celebre profezia di Isaia, e concludere con questo.
E’ una profezia divisa in tre tempi che sono straordinari.
L’annuncio di un mondo che potremmo descrivere in termini di conversione del modello produttivo:
“forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in aratri”.
Trasformeranno … in questo futuro visionario … trasformeranno gli strumenti della guerra e della morte negli strumenti del lavoro e della vita.
Primo movimento straordinario … quasi un programma politico. C’è qualcuno nella politica più coraggioso del profeta Isaia ? Non ne vedo molti!
E poi, e poi ancora … “nessun popolo leverà più le armi contro un altro popolo”. Un bel programma di politica estera, di politica internazionale, e il terzo punto è:
“Nessun essere umano si eserciterà più nell’arte della guerra”, perché ci eserciteremo nell’arte dell’accoglienza, della convivialità, della pace.
Sono giorni tristi. Tristi. Sono giorni tristi. Sono giorni in cui il cuore impara a convivere con una spece di amarezza permanente. Sono giorni in cui il rischio è di sentirsi prigionieri dell’ideologia dello sconfittismo, come se i nostri valori fossero reperti archeologici.
Sono questi i momenti in cui noi dobbiamo sapere raccontare l’insopportabilità di questo buio e di questo gelo, e dobbiamo avere il coraggio di costruire una profezia laica, quella che sempre è in grado di annunciare alle giovani generazioni tempi migliori.