(storia) Il prete e il brigante A 200 anni dai moti insurrezionali del 1809[1]
di Giancarlo Dalle Donne
In nome della SS. Trinità, Padre, Figlio e S. Spirito. Avviso al popolo dell’Italia. L’armata degl’Insorgenti solo combatte perché il Pontefice sommo dicono arrestato. Le chiese sono fatte stalle. Li religiosi esuli dai loro conventi. Le vergini desolate sotto assillo. Il patrimonio di Cristo derubato. Li poveri ingiuriati. Perciò a fine di vendicare l’onore di Dio prima, poi della Patria, invita tutti, con questo fine a prender l’armi, solo con l’intenzione di nuocere a chi vorrà resistere.
Questo «incendiario proclama» dell’estate 1809, scritto materialmente da Giovanni Giovannelli, parroco di Montesevero, e firmato dal “capo-brigante” Giacomo Mazzetti, costò a entrambi la vita. Il primo fu decapitato il 9 settembre 1809, nonostante il disperato tentativo del giovane falegname bolognese Davide Lippari di «rendere inservibile la macchina decollatrice all’occasione che si doveva eseguire la sentenza di morte» del Giovannelli. Il secondo «è stato per mano del carnefice decapitato in Bologna la mattina del giorno 13 settembre 1809». Il Giovannelli fu accusato e condannato a morte per la «provocata dissoluzione del Governo, preceduta, accompagnata, e susseguita da un attruppamento sedizioso, e di pratica, ed intelligenza co’ rivoltosi tendente a turbare il Regno colla guerra civile, armando i cittadini gli uni contro gli altri, e contro l’esercizio delle Autorità legittime». Il Mazzetti, di Sibano, di anni 29, possidente, era stato uno tra i principale organizzatori dei «moti insurrezionali» del 1809: un vero e proprio tentativo di ribellione contro il potere detenuto dall’invasore francese, che nel 1796 aveva invaso il territorio bolognese. Venne considerato «autore e capo delle insurrezioni che devastarono la Zocca, Porretta, Vergato, Sasso, Lojano, Scaricalasino, dove incendiarono le carte pubbliche, si atterrarono gli stemmi della Sovranità, gl’infransero con disprezzo, derubarono sostanze pubbliche e private, portando ovunque il terrore e lo spavento»; inoltre «si sciolsero le magistrature, e così si procurò la dissoluzione del Governo». «Per vendicare l’onore di Dio prima, poi della Patria»: in quei moti popolari si può rintracciare, oltre alla difesa della religione (minacciata dal dominio francese), la fase iniziale, embrionale, del nostro Risorgimento: la ribellione contro gli eserciti stranieri e l’emergere dell’idea di patria[2] .
La prima «scintilla della Rivoluzione» si accese nel maggio del 1809, come si può leggere in una relazione della Corte speciale, nella quale si narrano le vicende del primo capo-ribelle, Gaspare Paglioli, «d’anni 29, nativo di Savigno e abitante a Marzabotto, ove esercitava il fabbro ferraio», e che fu decapitato il 13 settembre 1809:
Mentre nel Dipartimento del Reno regnava una somma tranquillità e non vi era nessuna idea d’insurrezione, il fabbro ferraio di Marzabotto fece l’iniquo progetto di una insurrezione, ed ideò di voler effettuare la dissoluzione del Governo, cercò e raccolse i disertori onde renderli briganti, rinvenne e procurò loro le armi, e tutto condusse al prefisso termine col idea comunicata a molti compagni di voler uccidere le autorità, incendiare le carte pubbliche ed archivi, occupare le pubbliche casse, e dal Cantone del Sasso passare a quello del Vergato, e indi alla Porretta, colla lusinga che fatta gente e poderoso complotto potesse marciare sopra Bologna. Comunicò queste gravi intenzioni a molti compagni, e la sera delli primo maggio scorso nella di lui casa si teneva la prima riunione esecutiva di questi enormi misfatti, i quali essendo pervenuti a secreta notizia del vigilante Governo, fu radunata la Gendarmeria e la Guardia Nazionale, e così impedito il delitto, coll’arresto del capo brigamte, autore, promotore ed inventore Gaspare Paglioli. Furono arrestati alcuni altri e molti che venivano armati a quella volta accortisi delle Guardie legitime in azione, si diedero alla fuga vaganti per quelle montuose boscaglie. La prima scintilla della Rivoluzione, eccitata dal Paglioli per mano della Giustizia, viene estinta nel sangue del perfido capo ed eccitatore.
Così, secondo il Giudice di pace del Sasso, il gruppo di “briganti” con alla testa il loro capo Giacomo Mazzetti, collegato da un lato con «amici modenesi», dall’altro con i disertori di Monzuno, avrebbero dovuto, fin dal maggio del 1809
dare a dosso a tutte le Autorità amministrative e giudiziarie, incominciando da quelle del Sasso, e proseguire così in tutti gli altri Cantoni, unir genti, requisir armi, generi e denari, dare a dosso specialmente ai ricevitori comunali della diretta, ed impadronirsi del soldo, e fare insomma una Generale Sollevazione per condursi inclusivamente in Bologna ed impadronirsene.
Alla fine del mese di giugno «scoppiò il malcontento universale del Dazio macina», e il prefetto Mosca ne diede notizia con una circolare del 26 giugno:
La nuova attivazione de’ Dazi di consumo nelle Comuni non murate sinistramente interpretata, e singolarmente quella del Dazio macina, sembra possa aver destato del malcontento in alcune Comuni, ed alcuni villici si sono riuniti, ed hanno espressi alle Autorità locali de’ sentimenti d’insubordinazione non comandevoli[3] .
La protesta contro l’introduzione della tassa sul macinato permise il saldarsi, in un’azione comune, di strati di piccola borghesia rurale (estromessi dalla costruzione della Stato nelle sue articolazioni locali) con le masse popolari, costituitte da mezzadri e braccianti, particolarmente colpiti dalla nuova imposta. Si venne così a creare un “blocco sociale” (che comprendeva piccola borghesia, masse popolari e basso clero) che aveva come collante l’aperta ribellione agli esiti locali del potere napoleonico. La piccola borghesia, estromessa dalla gestione del potere locale e ormai sull’orlo della proletarizzazione, perché penalizzata dalle nuove scelte politico-amministrative; le masse popolari, per avere visto rapidamente distrutte le forme della loro vita comunitaria e per avere a che fare con istituzioni coercitive, che si spingevano fino all’interno della loro vita quotidiana, che significarono un’esasperata tassazione e un lungo periodo di ferma militare; il basso clero per motivi relativi alla politica francese in Italia, che aveva calpestato i principi religiosi. Quegli anni, in particolare il 1809-1810, furono definiti «l’età del brigantaggio», e «briganti» vennero chiamati il Mazzetti, il Boschieri, il Franchi, il Dondarini, il Giovannelli e tutti i loro «compagni»; il potere costituito sottolineò con forza l’aspetto legato agli atti criminosi da loro compiuti (incendi di archivi, distruzioni di sedi istituzionali, furti), e mise invece sistematicamente in secondo piano la valenza politica, rivoluzionaria, di quei tentativi di vera e propria «dissoluzione del Governo» (così si esprimono i documenti), di insurrezione armata. Lasciando da parte la storia, peraltro interessante, dell’etimologia del termine[4] , merita di essere segnalato come il potere costituito (anche variando i regimi) chiamò sempre «briganti» o «banditi» gli oppositori, nelle frequenti fasi storiche in cui, in presenza di un potere coercitivo, i contrasti politici si intrecciarono con atti di violenza. Non a caso, invece, gli insorgenti, a partire dal 1809, e per un secolo e mezzo, si autodefinirono piuttosto «patrioti», costretti a lottare, con tutti i mezzi a disposizione, leciti e illeciti, contro l’invasore. Nel 1809 l’invasore era rappresentato dal dominio francese, che fin dal 1796 si era appropriato con la forza dei territori della provincia di Bologna, e lentamente impose il proprio modello di Stato, costruendolo a poco a poco, raggiungendo, nel 1804 con la costituzione dei Comuni, anche le realtà locali. Se in un primo momento cercò di coinvolgere le borghesie rurali in questo processo, formando per esempio in ogni Comune il convocato, un consiglio comunale aperto a tutti i possidenti locali, a partire dalla svolta autoritaria del 1805, che portò alla nascita del Regno d’Italia, ampi strati di piccola borghesia vennero estromessi dalla gestione del potere. Come scrive Giacomelli,
la rivoluzione [ma soprattutto dopo il 1805], ristrutturando gran parte delle piccole comunità originarie in comuni più vasti, gravitanti sui maggiori centri del fondovalle, favorì l’affermazione delle componenti più decisamente borghesi della società locale riducendo per contro lo spazio delle minori borghesie comitatine e rurali e favorì anzi la formazione di un ceto burocratico distinto dalla società locale[5] .
I principali esponenti locali, la parte ricca e potente della borghesia, che era emersa nel corso dei secoli grazie a una progressiva ascesa sociale, si era allineata alle volontà dell’invasore senza opporsi, anzi, pronta a sfruttare i vantaggi che la nuova situazione offriva. In primo luogo approfittarono della vendita dei beni ecclesiastici per accrescere le loro proprietà terriere, si arricchirono poi attraverso l’appalto dei lavori pubblici e la gestione dei livelli e delle decime, spesso vennero inseriti nel nuovo ceto burocratico che l’intensificarsi della rete amministrativa aveva creato anche a livello locale. Alcuni di loro erano poi accusati esplicitamente di corruzione, in particolare il Cancelliere del Sasso: «chiamano la sua casa “la Magnazza”, supponendo che il Cancelliere prenda dei regali ed abbia presi dei denari per la leva da qualche coscritto e da altri». Quella che potremmo chiamare “piccola borghesia”, soprattutto a partire dalla svolta del 1805, rimase ai margini di questo processo, e anzi ne subì negativamente le conseguenze: ben lungi da ottenere vantaggi dalla nuova organizzazione politico- amministrativa, si trovò sul territorio le articolazioni dello Stato sotto forma di un potere coercitivo, dove la coscrizione obbligatoria e l’inasprimento del carico fiscale costituivano per loro gli aspetti più evidenti e negativi. Come confermano le ricerche di Guidotti, già citate, fu proprio questa “borghesia minore” a mettersi a capo della rivolta[6] .
I moti insurrezionali interessarono sia la pianura che la montagna. Tutto il territorio del Dipartimento del Reno fu percorso da bande armate, che assaltarono le sedi di Comuni e di altre istituzioni amministrative e giudiziarie locali, bruciando archivi e distruggendo le sedi delle istituzioni locali. Un episodio centrale delle rivolta fu poi il tentativo di assalto di Bologna. Il 7 luglio 1809 alcune centinaia di insorgenti, guidati dal capo-brigante Prospero Boschieri di Longara[7] , attaccarono la città, che fu difesa dal generale Grabinski. In montagna si venne a formare un “corpo” di circa 150 uomini, tra i quali i fratelli Vicinelli e Domenico Bettini di Sperticano, Lorenzo Quadri disertore di Montasico, i figli dell’oste delle Pradole. Questa banda d’insorgenti si recò, in un primo momento, a Spilamberto, «per fare copiosa provvista di polvere sulfurea», e si diede appuntamento a Tolè il 7 luglio. Qui comparve anche il Mazzetti, il capo riconosciuto della rivolta. Prima tappa fu Zocca, dove si impadronì della Dispensa dei Sali. Qui la banda si divise in due: un gruppo di insorgenti (guidati da Mazzetti e dai fratelli Vicinelli) si diresse verso Vergato e Porretta, l’altro (con a capo Giuseppe Dondarini) marciò verso il Sasso. Come si può leggere in una relazione dell’epoca,
alla Zocca, sulle crine degli Appennini cominciò il furore di questi scellerati, e Mazzetti, fatto Comandante, e come dicono alcuni rapporti ufficiali, invaso dalla fanatica idea di diventare Imperatore, montato a cavallo con simitara nuda e pistola in fonda entra con vistoso numero ai Bagni della Porretta ove i briganti si fecero lecito ogni eccesso di iniquità […]. Altri paesi dopo la Porretta soffrirono il guasto da questi iniqui perturbatori; e Mazzetti, Duce di loro, ardì internarsi nel Fiorentino ora Impero Francese. Mutata poi massima, era sua idea di conquistare Bologna.
Il Dondarini «intrapresa la spedizione per il Sasso attruppò molte altre persone in Montasico, Vedegheto, Malfolle, Venola, Luminasio, Praduro e Sasso», e «col suo attruppamento di circa cento individui si dirige al Sasso, al capoluogo, e la sorprende sul far del giorno nella mattina dell’11 del corrente mese [di luglio]». Il Dondarini fu condannato, nel 1810, alla «pena dei ferri a vita»,
accusato qual altro de’ capi degli insorgenti sediziosi, che ne’ giorni 11, 12 e 21 luglio ultimo passato [del 1809] provocarono la dissoluzione del Governo nelle comuni del Sasso, Pontecchio e altre, mediante l’incendio delle pubbliche carte, saccheggio della Cancelleria censuaria e degl’effetti spettanti in particolarità al Cancelliere del censo, signor Andrea Grassi, essendosi anche appropriata di diversa quantità di sale della Regia Finanza, che fu venduta, e distribuito il prezzo ai rivoltosi, ed avendo forzati diversi contadini a somministrare ai medesimi armi, munizioni e vitto.
Gli insorgenti, con a capo il Dondarini, s’impadronirono della Cancelleria censuaria, della Giudicatura e della Municipalità del Sasso: furono così assaltati il palazzo arcivescovile della Chiusura[8] e della Fontana e bruciati gli archivi, che contenevano le carte relative a tasse e coscrizione militare. Alcuni giorni dopo, il 21 luglio, si recarono a Palazzo de’ Rossi, in cerca di armi. Il 23 agosto, durante una perlustrazione della Guardia nazionale, dalle parti di Montese, il Dondarini venne arrestato, insieme ad un compagno. Riferisce il tenente Carlo Merlani, che, «interrogati chi fossero, risposero che erano patrioti, che volevano andare per trucidare que’ soldati [que’ Francesi] che erano nella Rocca di Montese».
Scrive uno dei principali storici dell’insorgenza del 1809:
Per quanto l’amnistia, gli arresti, le fucilazioni, le condanne a morte, i premi ai delatori, diano qualche positivo risultato, la situazione del dipartimento per tutto il mese di agosto permane caotica: in massima parte i comuni hanno avuto le case municipali invase, bruciati gli archivi; sindaci, priori, cancellieri del censo, ricevitori del dazio, giudici di pace sono fuggiti, né si trova chi voglia sostituirli[9] .
La rivolta continuò, e nell’ottobre del 1809 avvenne l’episodio più grave: quello che nei resoconti ufficiali viene chiamato il «fatto delle Prádole» (località dalle parti di Tolè), in cui perse la vita il cancelliere del Giudice di pace, Giuseppe Rossi. Come racconta un testimone, una banda di “briganti”, dopo avere assaltato la Comune di Tolè, il 24 ottobre, il giorno successivo,
mezzo miglio prima di giungere alle Prádole incontrarono tre civici che spogliarono delle armi loro, e tennero in arresto. Giunti alle Prádole, sorpresero un corpo di Guardia Civica, e facendo fuoco contro di essa ne uccisero tre, ed altri due ferirono. Fra i morti intesi a dire che vi fosse il capitano Rossi. Dopo di questo fatto, tutti coloro, che potevano essere di circa 50, presero a dividrsi i fardelli del saccheggio dato alla casa del sindaco di Tolè.
Questo cruento episodio ebbe ripercussioni negative. Secondo un rapporto del Giudice di pace del Cantone del Sasso, «quivi non è più in attività Guardia Nazionale, né scelta né volontaria. La Guardia scelta nel fatto delle Prádole andiede affatto dispersa, e quegl’individui, che non restarono vittima dei briganti ebbero a sorte potersi salvare con la fuga». Analogamente, anche la Guardia volontaria, «appena avuta la notizia del Capitano, e di diversi altri individui di quella, abbandonò tosto il Quartiere, e si ritirò alle rispettive case». Così, lamenta il Giudice di pace, «in oggi questo Cantone a capoluogo [è] in abbandono alla sorte». Alcuni mesi più tardi, il 20 marzo 1810, a Lagune, il «coraggioso» Luigi Scandellari, della Guardia nazionale del Sasso, riuscì ad arrestare il “capo-brigante” Fortuzzi. In base al resoconto che ne dà il «Redattore del Reno», «lo Scandellari nella fiera lotta col Fortuzzi ha perduto il dito anulare. Ma tal perdita è costata al brigante la mutilazione del naso per morso appiccatogli, e il suo arresto». Ma ormai il “brigantaggio” era stato sconfitto. Quello stesso giorno, infatti, fu arrestato il principale “capo brigante”, Prospero Baschieri, insieme a Agostino Patella e Pietro Zarri, e «gl’infami loro teschi furono esposti alla pubblica esecrazione sulla Piazza Maggiore». A quella data, scrive un giornale locale, «il brigandaggio è presso ad essere del tutto sterminato e conquiso». Per giudicare (e condannare) i rivoltosi venne istituito un tribunale speciale, la Corte speciale per i delitti di Stato del Dipartimento del Reno, le cui competenze riguardavano «qualunque macchinazione interna diretta a sovvertire l’ordine pubblico, ad alterare la fedeltà de’ sudditi, o ad eccitarli alla ribellione contro il Sovrano e le leggi». In tre anni di attività, la Corte speciale (il cui ricco archivio è conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna) svolse 482 processi contro 789 imputati: furono emesse 37 sentenze di carcere (di cui 16 a vita), e condannate a morte 44 persone, mentre altre 14 morirono in prigione[10] .
Nonostante la sconfitta dei ribelli, non si può disconoscere la grande importanza dei moti insurrezionali del 1809 perché, come è stato osservato, in essi «è da ricercare il principio del rapido crollo del regime napoleonico in Italia»[11] , e nello stesso tempo «il primo movimento veramente popolare del Risorgimento italiano»[12].
[1] Per non appesantire il testo, per i riferimenti archivistici si rimanda all’introduzione al volume “Per vendicare l’onore di Dio prima, poi della Patria”. I moti insurrezionali del 1809 al Sasso: alle origini del Risorgimento, a cura di G. Dalle Donne, Bologna Costa, 2004 (dal quale è tratta la documentazione qui proposta). [2] Ho sviluppato questa interpretazione nell’Introduzione al volume “Per vendicare l’onore di Dio prima, poi della Patria”, citato alla nota precedente. Tesi analoga, in contrasto con quelle della “storiografia dominante”, era già stata sostenuta da Paolo Guidotti, che ritornò più volte sulla sua «”scandalosa” presentazione dell’insorgenza antifrancese sulla montagna bolognese quale primo movimento veramente popolare del Risorgimento italiano» (cfr. L’insorgenza antiaustriaca dell’autunno 1799 nel Vegatese. Note sulle insorgenze antifrancese e antiaustriaca. Ptime insurrezioni popolari risorgimentali?, in «Strenna Storica Bolognese», 1984; Vergato. Centro politico e di osservazione della montagna bolognese dal Medioevo all’Unità d’Italia, Bologna, 1985; L’impatto oppresivo della Rivoluzione francese sulla cultura contadina della montagna bolognese, in «Il Carrobbio», 1989). [3] Archivio storico del Comune di Sasso Marconi, Carteggio amministrativo, b. 1. [4] «Nella storia della parola [“brigante”] si possono individuare due momenti distinti: il significato antico sostanzialmente positivo e quello più recente, che, sorto da una degradazione del precedente assunse sempre più quella connotazione di “fuorilegge”, che oggi prevale. Per Lissoni questo senso moderno (“masnadiere, scherano, assassino”) sarebbe proprio del francese brigant (e, quindi, da rifuggire), come lo è il derivato brigantaggio, dal francese brigandage, fin dal 1410. E il neologismo semantico è confermato dal Boerio: “Con tale nome erano comunemente chiamati nell’anno 1809 coloro che nelle varie nostre province si sollevarono» (M. Cortellazzo-P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, vol. 1, Bologna, 1979, p. 166). [5] A. Giacomelli, Comunità e parrocchia nell’area appenninica in età moderna, in Per una storia dell’Emilia Romagna, Ancona, 1985, p. 123. [6] Scrive Guidotti: «Ma chi sono, in realtà, questi insorgenti? […] piccoli e medi proprietari, osti, molinari, sarti, muratori, artieri di una certa qualificazione, benestanti e perfino ufficiali e guardie nazionali, segretari e cursori delle municipalità, postari e amministratori comunali. E tra gli arrestati molti preti che si immedesimano con le ragioni del popolo» (L’impatto oppressivo della Rivoluzione francese, cit., p. 197. [7] Cfr. F. Servetti Donati, Prospero Baschieri contadino capo-brigante. Piccola cronaca dell’insorgenza e del brigantaggio (1809-10) nel cantone di Budrio e dintorni, in «Strenna Storica Bolognese», 1978. [8] O Cesura, attualmente denominato Villa Marini. [9] G. Natali, L’insorgenza del 1809 nel Dipartimento del Reno, in «Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per l’Emilia e la Romagna», III, 1937, p. 60. [10] Per avere un’idea più vicina alla realtà della diffusione dei moti insurrezionali del 1809-1810, è necessario tenere presente come, in base alle disposizioni impartite dal Procuratore generale, «non alla massa, ed alla traviata moltitudine degl’insorgenti debbono essere dirette le indagini della Corte speciale, ma che il giudizio di questa dev’essere limitata ai soli capi, e promotori, ai preti ed impiegati pubblici che dimenticando il loro carattere si sono macchiati del delitto di ribellione». Più in generale, in base ai dati forniti da una pubblicazione recente, durante il periodo francese in utta la penisola (esclusa la sola Sicilia) «insorsero in armi più di 300.000 italiani; non ne morirono meno di 100.000» (M. Viglione, Rivolte dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Roma, 1999, p. 9). [11] G. Natali, L’insorgenza del 1809 nel Dipartimento del Reno, cit., p. 72. [12] P. Guidotti, L’impatto oppressivo della Rivoluzione francese sulla cultura contadina della montagna bolognese, cit., p. 192. |
Il prete e il brigante (moti insurezzionali del 1809)
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