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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 6
A BOLOGNA
Intanto la Gianna, con la madre e i due fratelli e gli altri sfollati della Fontana, diretti a Bologna, si fermarono per la notte alla Profumeria di Casalecchio, dove allora c’era un contadino.
Ci fermammo tutti lì dentro la stalla. Mi ricordo che ci fecero un po’ di riso per cena, scondito, cotto con un po’ di acqua e basta.
Il mattino seguente ci riavviammo verso Bologna, senza sapere dove avremmo alloggiato.
Allora mia madre pensò di provare ad andare dalla zia Emma, sorella di mio padre, che abitava in via Centotrecento. E quelli che non avevano posto dove andare, andarono dentro alle caserme. Ci sono stati tanto tempo dentro a queste casermone.
Quando ci presentammo lì a casa della zia, lei poveretta ci accolse a braccia aperte e ci ospitò senza esitazione, anche se l’appartamento era molto piccolo e aveva problemi con il marito.
Inoltre era appena deceduta la figlioletta, a causa di un malattia contratta al nido, dove la zia aveva dovuto metterla, perché lavorava. Aveva un anno, proprio come il mio fratellino Giulio.
Purtroppo, la convivenza con il marito della zia, che soffriva di seri disturbi comportamentali, si rivelò insostenibile.
Resistemmo una settimana soltanto e poi andammo al Seminario di via dei Mille, dove ci avevano detto che c’erano delle camere.
Ci assegnarono una camera dove c’era una stufa e un fornellino per cucinare.
Dio che vita! Quando penso ai cessi, che non ci si poteva andare perché erano sempre pieni! C’era questo lungo corridoio con una decina di camere per lato e un solo cesso là in fondo. Sempre sporco perché dell’acqua non ce n’era mai abbastanza.
Siamo rimasti là diversi mesi, fino alla Liberazione.
Nel febbraio del ’45, Pietro, il padre di Gianna, era stato deportato da S. Silvestro ad Alfonsine, sempre per lavorare nella linea gotica.
Là si ammalò di nefrite.
Quando sua moglie, Alma, che era alloggiata nel Seminario a Bologna con il resto della famiglia, ne venne a conoscenza, partì subito per Alfonsine, percorrendo oltre cinquanta chilometri in bicicletta.
L’Alma si riportò a casa Pietro, gravemente malato, sulla bicicletta. Impiegarono due giorni per il ritorno e passarono la notte nella stalla di un contadino, che trovarono lungo la strada.
La malattia si protrasse per mesi, rendendo Pietro invalido al lavoro fin dopo la Liberazione.
Del resto, anche prima della guerra, quando era nel pieno delle forze, da socialista convinto, che aveva sempre rifiutato la tessera del fascio, faticava a trovare da lavorare per mantenere la famiglia.
Dopo aver bevuto di quel latte appena munto, Martino cominciò a star male, ad avere la febbre alta e la dissenteria e dopo di lui anche diversi altri, là a Prato del Miglio, ebbero gli stessi sintomi.
Fino a che, il 6 dicembre del ’44, il medico tedesco ci mandò all’ospedale.
Ci caricarono su un carretto trainato da un cavallo e ci portarono a Palazzo Rossi, dove c’era l’ospedale militare tedesco.
Mi ricordo che lì trovai una ragazza che abitava alla Fontana una volta e dopo si era trasferita a Palazzo Rossi e lavorava come inserviente in quell’ospedale. Quando mi vide mi riconobbe subito: sei qui anche te! adesso ti porto da mangiare.
Mi portò un piatto di maccheroni. Quando cominciai a mangiarli, ebbi una brutta sorpresa: erano dolci! All’usanza dei Tedeschi. Noi non avevamo neanche lo zucchero da mettere nel caffelatte e loro mangiavano i maccheroni dolci!
Provai a mangiare questi maccheroni, ma non andavano giù. Ne mangiai due o tre forchettate e poi basta.
In ospedale ci visitarono, poi ci caricarono dentro una vera e propria autoambulanza, anche se era una vecchia carretta a motore e ci portarono all’ospedale a Bologna.
Mi ricordo che prima ci portarono su all’Istituto Rizzoli, che naturalmente non era la giusta destinazione. Noi avevamo una forma di malattia infettiva, paratifo, che forse non era ancora stata diagnosticata, però i sintomi erano quelli del tifo.
Così ci portarono al S. Orsola, dove ci ricoverarono nel vecchio fabbricato dell’Isolamento.
Anche lì io avevo sempre la febbre alta.
Per le feste natalizie, vennero a trovarmi i miei amici e compagni Lino Lucchi, Arnaldo, Orlando De Maria e Gastone Gazzotti. Ricordo che mi portarono in regalo una bella ciambellina…che io purtroppo non potei mangiare a causa della malattia. E così se la mangiarono loro volentieri!
Ed ero, come gli altri, pieno di pidocchi, che mi giravano dappertutto in testa e sul corpo.
Ci fecero fare un gran bagno, perché lo sapevano che eravamo pieni, poi ci diedero una coperta e ci misero a letto nudi, perché i nostri indumenti li portarono a sterilizzare.
Il barbiere dell’ospedale venne a tosarci tutti quanti a zero.
Era di Sasso, un certo Lelli, che una volta aveva il negozio proprio in paese e in quel periodo faceva il barbiere presso l’ospedale S. Orsola e l’ha fatto fino alla morte.
Allora dico io: ci conosciamo?
Ma, disse lui, non lo so, chi sei?
Dico: sono il figlio di Righi Olindo della Fontana.
Ah Martino! Ma guarda un po’. E poi cominciò a scuotere la testa mentre mi tosava, e diceva fra sé: ma pensa te le chiacchiere.
E io: cosa intende dire?
Ma sai… qui a Bologna c’è fuori la chiacchiera che tu sei morto! Han visto la tua tomba addirittura, nella linea lì dove sono i Tedeschi, al fronte!
Rimasi di stucco.
Pensai subito che sicuramente le mie due sorelle che erano sfollate a Bologna, la Nella e la Mafalda, avevano sentito questa voce.
Allora chiesi al barbiere se gli era possibile avvertire qualcuno dei miei a Bologna, che venissero a trovarmi, che c’ero ancora!
Ma sì, dice, ci proverò.
E così fece il bravo barbiere. Durante l’allarme antiaereo, andò in un rifugio e trovò Elda, un’amica di mia sorella Mafalda.
Le disse: guarda che io oggi ho tosato un ragazzo che si chiama Martino, che mi ha chiesto di avvisare le sue sorelle. Così l’Elda andò a trovare la Mafalda, che si precipitò da me in ospedale. Poi venne anche l’altra mia sorella Nella.
Quando le mie sorelle vennero a farmi visita, chiesi se potevano avvertire il babbo e il resto della famiglia.
Mio padre, con la mia matrigna e due mie sorelle, erano già sfollati a Zola Predosa e loro non sapevano niente di me.
Quella zona non era stata evacuata, però per raggiungerla bisognava passare da Casalecchio, ed era molto rischioso.
Quindi la Nella e la Mafalda mi risposero che non sapevano come fare.
Trascorsi così la quarantena, durante la quale, passati i pidocchi di ogni tipo, dovetti combattere anche contro la scabbia, che è sempre un prodotto della sporcizia. Non ci duravo dal prurito! Mi son grattato per quaranta giorni e quaranta notti, fino ad arrivare alle piaghe.
Quando fui sfebbrato, la Nella mi disse che voleva prendermi a casa con lei, dove era sfollata con la famiglia, da Casalecchio.
A Bologna erano alloggiati presso una famiglia, che stava in affitto in via Centotrecento. Avrebbe cercato di convincere il titolare dell’affitto ad ospitare anche me, anche se erano già molto fitti in quell’appartamento.
Io morivo dalla voglia di andare via, ma ricordavo bene le parole del sergente tedesco che ci aveva lasciato in ospedale: noi vi abbiamo portato qui a curarvi perché siete malati, ma quando sarete guariti, dovrete tornare dove eravate, lassù da noi (cioè a lavorare per la linea gotica).
Comunque mia sorella parlò al padrone di casa, certo Rienzi, che da principio mostrò qualche resistenza, anche perché gli fu detto che non ero ancora guarito dalla scabbia e lui aveva due figli piccoli in casa e temeva il contagio.
Ciononostante, cedette poi alle accorate insistenze della Nella, accompagnate dalle promesse di usare tutte le precauzioni possibili.
In fondo era gente buona e generosa, che capiva la situazione.
Fu così, che quando mia sorella ebbe il benestare di prendermi là con loro, andò a parlare con il medico che mi curava, certo dr. Cugnini. Provò a dirgli: visto che mio fratello è già guarito e non ha più la febbre, io lo prenderei a casa mia a fare la convalescenza.
Il medico si oppose con determinazione: no, no signora, io non posso mica lasciarlo venire a casa sua. Qui l’han portato i Tedeschi e io ho l’obbligo di riconsegnarlo ai Tedeschi!
La Nella scoppiò a piangere e disperarsi: è ancora convalescente!
E lui, fermo: può rimanere qui in ospedale finché non ha recuperato un poco le forze, ma poi io devo riconsegnarlo ai Tedeschi.
Mia sorella venne da me piangendo.
Era circa mezzogiorno. E io volevo lasciare l’ospedale. E non volevo tornare con i Tedeschi.
Le dissi: tu adesso vai a casa e stasera, prima del coprifuoco, vieni qui con qualcosa da mettermi addosso (perché io avevo solo il camicione che davano loro) e poi io vengo a casa con te.
Puntualmente la sera stessa lei arrivò con Nandino, suo marito. Mi portarono da vestire, mi presero per le braccia, uno di qua e uno di là e sgattaiolammo via per una porticina del reparto Isolamento. Ancora oggi, quando vado al S. Orsola, la vedo quella porticina! Adesso è sempre chiusa.
Arrivammo a piedi in via Centotrecento e il dottore è ancora là che aspetta!
L’ho rivisto dopo la guerra, era primario del reparto dove era ricoverata la mia matrigna, però io non gli dissi niente.
All’ingresso dell’appartamento di via Centotrecento, c’era una specie di salone abbastanza grande, a sinistra c’era la stanza dove stava la Nella con la sua famiglia e a destra c’erano altre due stanze, una per la famiglia dell’affittuario e l’altra per un’altra famiglia di sfollati.
La famiglia della Nella era numerosa: suo marito Nandino, la figlioletta Franca, la suocera Adalgisa, la cognata Nora e il “bastardino” Marino. E poi mi aggiunsi io.
All’inizio stavamo in sette in una stanza e poi mi assegnarono una brandina nel salone e io lì andavo bene perché ero solo e quindi godevo di una certa “libertà”! Il cesso di casa era in uno stanzino, ricavato dentro l’ambiente della cucina!
Il bagno si faceva in una catinella nella propria camera.
Tutte le sere mia sorella mi scaldava un gran pentola d’acqua e mi faceva il bagno, perché l’unico mezzo per far morire la scabbia era fare un bagno tutti i giorni e poi ungersi con un unto che si chiamava “ossido giallo”. Mi sembra ancora di vederlo: era una pomata densa e gialla, che si spalmava per tutto il corpo.
La Nella mi ungeva e mi vestiva di tutto punto con calzini, maglia, mutande lunghe, guanti, per evitare di sporcare il letto.
In quella casa rimasi quasi un mesetto.
In quel lasso di tempo uscii di casa non più di tre volte. E solo per andare all’Opera! A sentire mio cognato Nandino che cantava nel coro del Comunale. Mi ricordo la Bohème…
Passavo tutto il tempo in casa, perché non volevo farmi vedere molto in giro, per evitare di incontrare qualcuno che mi conosceva e che non fosse dalla mia parte.
Però qualche volta ricevevo le visite di una ragazza, che avevo conosciuto prima di andare nei partigiani. Era venuta a trovarmi anche all’ospedale.
Mia sorella mi chiese che intenzioni avevo con lei. Io le risposi che, dato il particolare momento, non avevo nessuna intenzione di impegnarmi. Allora la Nella mi pregò di lasciar perdere, per non correre dei rischi inutilmente e per non recare disturbo a chi ci ospitava.
Fu così che le scrissi una lettera, con cui… “davo le dimissioni”! E gliela consegnai in occasione di una sua visita, nel momento del commiato. Così non potei vedere la sua reazione.
Un giorno viene a trovarmi un giovane della famiglia, dove erano sfollati i miei genitori con le altre mie due sorelle, in località Ponte Ronca. Erano parenti della mia matrigna e avevano lo stesso suo cognome, Bartarelli.
Fernando era il nome di questo ragazzo, che era di due anni più giovane di me. Anche lui aveva fatto il partigiano, però in quei giorni era a casa, perché d’inverno non si poteva stare alla macchia.
Era stato mandato lì a Bologna dai miei genitori, che, non so come, erano venuti a conoscenza del mio domicilio.
Fernando mi prese subito in simpatia e mi disse: perché non vieni anche tu là a Ponte Ronca? Là non ci sono più le SS, adesso ci sono i Tedeschi militari normali, sono Alpini e ci lasciano vivere. La nostra casa è grande abbastanza e da mangiare ne abbiamo.
Allora ne parlai con la Nella, dicendole che sarei andato volentieri, anche per rivedere i nostri genitori e per alleggerire un po’ la casa di via Centotrecento. Allora fa lei: fai come preferisci, se vuoi restare, io ti tengo ancora.
LINK AI CAPITOLI
[Prologo] [1-In guerra] [2-Nella Todt] [3-Nei partigiani] [4-Da ferito] [5-Sfollati e deportati] [6-A Bologna] [7-Da Ponte Ronca al carcere] [8-La Liberazione] [9-Il Dopoguerra]
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 5
SFOLLATI E DEPORTATI
In quei giorni la Gianna stava proprio sotto i bombardamenti, nel paesino della Fontana, dove viveva con la famiglia.
Racconta che, al suono dell’allarme, scappavamo tutti per rifugiarsi nelle grotte della Rupe del Sasso.
Allora dalla Fontana si vedeva una lunga fila di gente (tutti gli abitanti del paese), dirigersi verso le grotte, così senza nessuna protezione.
Poi, appena arrivati nel rifugio, c’era il cessato allarme!
Finché, con l’arrivo dell’estate e l’avvicinarsi del fronte, furono costretti a rimanere permanentemente in grotta, dove dovettero vivere per mesi in condizioni a dir poco disagiate.
Ogni nucleo familiare aveva preso posto nel proprio loculo, dove depositava materassi e coperte.
Per i nostri bisogni corporali, andavamo fuori, subito dietro la grotta. Così era sempre pieno di escrementi e a nessuno che venisse in mente di pulire un po’, prendere un badile e buttare tutto giù per il grotto.
Le normali attività lavorative erano ormai tutte cessate e i negozi avevano chiuso.
Alla Fontana i Tedeschi avevano preso possesso della bottega dell’Ida di Cassani, e da lì salivano frequentemente alle grotte, alla ricerca degli uomini validi. Ma gli uomini erano tutti nascosti, chi dentro le grotte (anche all’ insaputa degli stessi familiari) e chi nel bosco come Pietro, suo padre.
Pietro, allora poco meno che quarantenne, era troppo “vecchio” per il militare. Però in quel periodo dovette nascondersi, perché avrebbero preso anche lui Si nascondeva, insieme agli altri uomini, nei boschi sopra la Rupe.
La nonna Natalina, che abitava in un podere in cima alla Rupe, portava da mangiare a lui e anche agli altri uomini. Quel poco che metteva insieme, visto che non ne bastava neanche per la propria numerosa famiglia.
Lassù c’era un piazzale da dove i Tedeschi sparavano con i cannoni e la nonna abitava proprio lì.
A volte, dalle grotte in cui vivevamo, andavo, con mia cugina, su per la Rupe, dalla nonna. E c’erano le cannonate che ci passavano di qua e di là, non so da dove, le pallottole facevano ssssssss!
Quando i Tedeschi salivano in grotta, noi donne avevamo paura, perché a volte avevano preso delle ragazze.
Una volta che vennero, dissero che volevano due ragazze per pelare delle patate, le venivano a prendere per andare giù alla bottega. Allora, visto che ero una cinnazza, ci andai io con un’altra, che però era più grande di me e così bellina!
Mi misero lì in cucina, nella bottega di Cassani, a pelar le patate. Invece la ragazza che era con me la mandarono di sopra a fare le camere!
Quando tornò mi disse: micca dir niente veh, dì che siamo sempre state assieme.
Non seppi mai cos’era veramente accaduto in quelle stanze di sopra, vidi solo che lei non era messa tanto bene.
Mentre la Gianna stava nella grotta della Rupe, Martino stava nel rifugio del monte sopra la Lama.
Era un rifugio in cui pioveva dentro e venne anche giù un blocco di terra.
Io compii i miei vent’anni proprio lì dentro. Era l’11 novembre 1944.
Pensavo: guèrda bàin duv a véin a cumpîr gl’ân mé, i véint’ân (guarda dove vengo a compiere gli anni io, i vent’anni)…i vent’anni sono i più belli, dicono.
Era un periodo che pioveva quasi tutti i giorni e quei rifugi erano talmente superficiali, che con le grandi piogge cominciarono a crollare. Ecco perché direi che adesso non si vedono più. Per questo ci spostammo in altri rifugi più in basso.
Nelle case giù di Campofedele e Brolo, le famiglie di contadini che abitavano lì avevano fatto, per i civili, dei rifugi robusti, sotto a delle pareti molto spesse e quindi erano più sicuri.
Allora io ed altri andammo a nasconderci lì insieme alle famiglie del luogo.
Ma dopo poco tempo, nello stesso mese di novembre di quell’anno, ci piombò nel rifugio una pattuglia tedesca, che ci prelevò per andare a lavorare.
Ci portarono su a S. Silvestro, dove, dato l’imminente arrivo del fronte, i Tedeschi volevano fare delle trincee.
Non ci fecero del male, perché anche se loro sospettavano che noi fossimo partigiani, non eravamo più armati (le armi le avevamo nascoste), quindi eravamo civili e loro avevano bisogno di manodopera per fare quelle trincee.
Si attestarono anche su Monte Sole, come sui monti dei dintorni, tenevano botta e costruivano fortificazioni per mitraglie, cannoni e via dicendo.
La sera stessa della nostra deportazione, le mogli dei contadini che erano stati portati via con noi, vennero su a chiedere al tenente delle SS se ci lasciavano venire a dormire nei rifugi, dove era più sicuro, perché i bombardamenti e le cannonate degli alleati erano sempre più frequenti.
Era un giovane tenente, che subito rispose: no, no, niente buono.
Le donne si misero a piangere, tanto che, ad un certo punto, lui si mosse a compassione e ci lasciò tornare nei rifugi. Però disse: voi andare rifugio e domattina ore 8 essere qui a lavorare. E noi: sì, sì, certo!
Ma mentre scendevamo dal monte, le donne ci comunicarono la notizia: abbiamo avuto l’ordine di evacuare, domattina dobbiamo andar via, dobbiamo andare a Bologna.
L’ordine veniva proprio dai Tedeschi, che non volevano che ci fossero dei civili in zona.
Quindi, ci dissero con fermezza le donne, domattina presto, appena giorno, noi partiamo e voi altri venite con noi.
E così facemmo. Era il 14 novembre 1944.
Io in mezzo a loro, chi aveva la carriola, chi il biroccetto a mano per portarsi dietro qualcosa. Ho ancora negli occhi la scena: tutta ‘stà povera gente dalla Lama di Reno, con ‘sti carrioli, carrettini, con le bestie spaiate, chi piangeva, i bambini…era uno strazio.
Quando arrivammo alle grotte sopra al Botteghino (dove ora c’è la trattoria La Rupe), io andai su nei rifugi per vedere di trovare qualcuno che conoscevo: difatti le grotte erano piene di rifugiati della Fontana e Case Gasparri, che avevano portato su dei viveri, così facevano qualcosa da mangiare…
C’era anche la mia futura moglie, la Gianna, lassù nelle grotte. Ma io allora non la conoscevo.
Nelle grotte ritrovai invece Gardini, Pasquini, Lucchi e altri. Erano quelli del gruppo di Guido Cremonini che, alcuni mesi prima, si erano spostati dalla parte di Dola.
Mi ricordo che Gardini mi disse: noi abbiamo deciso di restare qui, non andiamo a Bologna, perché qui le famiglie si sono organizzate, hanno fatto provviste, hanno da mangiare. Contiamo di passare il fronte da qui.
Infatti allora si pensava che il fronte venisse avanti in fretta. Invece si mosse solo in primavera.
Quelli del mio gruppo dissero che era meglio andare a Bologna. Io mi lasciai convincere, così mi avviai verso Bologna, insieme alle famiglie della Lama.
Presto i Tedeschi mandarono via anche tutti quelli che erano nelle grotte, che nel frattempo avevano finito le provviste e l’acqua.
Così anche la Gianna, con la famiglia, dovette andare a Bologna.
Anche gli uomini che erano stati nascosti nel bosco, visto che non c’era più nessuno a rifornirli di cibo, uscirono allo scoperto e si unirono all’esodo.
Gianna prosegue nel suo racconto.
Anche mio padre venne giù, allora preparammo una carriola con le poche cose che avevamo, io avevo una bicicletta, dove avevo caricato il mio fratellino Giulio, e quando fummo a Sasso, in località Cervetta catturarono mio padre insieme a tutti gli altri uomini. Allora mia madre e Chicco, l’altro mio fratello, presero la carriola e io insieme a loro, sempre con Giulio sulla bicicletta, riprendemmo tristemente la strada per Bologna.
Anche Martino, con i suoi amici della Lama, dopo aver lasciato gli altri compagni nelle grotte, dovette passare per il posto di blocco della Cervetta.
La pattuglia dei Tedeschi era là ad attenderli e li presero tutti.
Io avevo ancora due o tre lineette di febbre la sera. Poi smisi di provarmela, visto che non avevo più il termometro!
Provai a dire che ero krank (malato). E loro: no, tu buono.
Quel Tedesco in principio mi ascoltò pazientemente, ma poi, alle mie insistenze, sbottò: tu buono, dio boia! E dovetti cedere.
Lì alla Cervetta c’era una macelleria con cancelli di ferro: ci misero lì dentro (dove c’è il fornaio adesso) e così fecero con tutti quelli che fermavano.
Arrivarono anche Gardini e gli altri, che erano rimasti nelle grotte.
Allora io gli chiesi ironico: ma cum’éla ca si qué (come mai siete qui)?
Vidi anche quando presero Pietro, il padre della Gianna. Venne lì dentro con me, però allora ci conoscevamo appena.
Alcuni (tra cui Pietro, Grassilli e Bettini) li portarono su a S. Silvestro, località da dove ero appena sfuggito ai lavori imposti dalle SS. Allora pensai: se mi mandano lassù mi riconoscono e non so cosa mi potrà succedere…perché c’era quella regola lì che se uno scappava, lo facevano fuori…non è sempre stato vero, però ne hanno fatto di quelle cose lì, rappresaglie ecc.
Fortunatamente mi portarono a Cà d’Piréin (casa Pierino, nei pressi del vecchio ingresso dell’autostrada), lì a Sasso.
Durante il giorno eravamo in zona, circa duecento rastrellati, accampati nelle case di Prato del Miglio.
La sera, all’imbrunire, ci caricavano nei camion e ci portavano verso Monzuno e zone limitrofe, per portare le munizioni al fronte.
Una notte i Tedeschi mandarono me ed alcuni altri giovani rastrellati a portar via del bestiame nella zona di Vado, all’Allocco.
Là c’era un mulino, il famoso il mulino dell’Allocco, al muléin dl’Alòc.
Era giù vicino al fiume, dove adesso c’è la passerella, che allora era distrutta.
Quando arrivammo al mulino, vi trovammo delle famiglie di civili e anche dei Tedeschi.
C’erano delle bestie nella stalla e i contadini ci supplicarono di non portarle via, perché erano la fonte del loro sostentamento.
E noi cosa potevamo fare?
Noi siamo qui rastrellati come voi, sono i Tedeschi che comandano, noi non possiamo mica decidere se prenderle o meno.
E loro: fate in maniera che ce le lascino, che danno un po’ di latte, che ci permette di sopravvivere, con i bambini...
Niente da fare, i Tedeschi furono perentori: mucche portare.
Così, come sempre per evitare i bombardamenti, aspettammo che cominciasse a scurire, poi uscimmo ed andammo a prendere le bestie.
Portammo questi animali giù lungo il Setta e, quando vedemmo che il fiume non era in piena, anche se faceva molto freddo, cominciammo ad attraversare con le bestie alla cavezza.
Quando fummo nel bel mezzo del fiume - c’era una luna che sembrava giorno – inaspettatamente incominciarono ad arrivare gli aerei e mitragliarono sopra di noi.
Le bestie si spaventarono e ci scapparono e dovemmo recuperarle.
Poi riuscimmo a passare di là dal fiume e proseguimmo finché arrivammo giù a Casa Venezia di Battedizzo, una casa sulla strada, che c’è ancora, anzi l’hanno ampliata ed è diventata una bella casa, mentre prima era una casetta con la stalla.
Ci fermammo lì e mettemmo le mucche nella stalla.
Quando si fece giorno, noi avevamo una gran fame, perché la sera eravamo partiti senza mangiare. Io trovai un tegame lì in giro, lo pulii un po’ come potei e cominciai a mungere una mucca per bere almeno un po’ di latte. Allora si diceva che il latte appena munto si poteva anche consumare crudo.
E invece: un mal di pancia!
Riprendemmo la nostra strada e arrivammo a Prato del Miglio. Lì c’era una piccola stalla, dove tenevano le bestie, che venivano poi macellate ogni due o tre giorni, per la mensa dei molti Tedeschi lì alloggiati e anche di noi rastrellati.
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 3
NEI PARTIGIANI
Verso la fine di aprile del ‘44, cominciammo a metterci in contatto con il movimento partigiano.
Il primo contatto fu un certo Gino Coralli della Fontana. A sua volta lui era già in contatto con gente del movimento partigiano. Ci parlava del movimento, di andar via, di andar nel bosco, ecc.
Il nostro riferimento era Ezio Beccari, detto “al Ciôd” (il Chiodo).
E poi ci fu l’incontro con Guido Cremonini.
Ci conoscevamo fin da ragazzi, lui era più grande di me, perché era del ‘21. Mi disse: oh se hai intenzione di partire, io ho il mezzo per imbarcarti.
E fu così che partii anch’io, insieme ad un gruppo di ragazzi, dei quali alcuni erano di quelli che erano stati con me nella Todt, altri che erano restati a casa, mezzo nascosti.
Il nostro distretto partigiano era in località Ganzole, alla Torricella - una casetta con un fienile – dove abitava un vecchio antifascista, Rossi Ettore, che ci ospitò dentro la stalla. Allora una mattina andai lì, dove ci radunammo in un grande branco, di circa un centinaio di persone.
La sera, naturalmente dopo il coprifuoco, partimmo tutti. Passammo la passerella di Vizzano, attraversammo la Porrettana e poi su che arrivammo alla Colombara, sopra alla collina a destra, per andare verso Monte San Giovanni. Là sopra c’era una cascina da contadini, dove dormimmo un poco, per poi ripartire la sera seguente, perché viaggiavamo solo con il buio.
Eravamo condotti da una guida che ci doveva portare a Montefiorino, dove c’era la Repubblica occupata dai partigiani e lì non entravano i Tedeschi.
In quella zona gli Americani e gli Inglesi avevano fatto i lanci, con il paracadute, di grandi bidoni contenenti armi, munizioni, ma anche viveri, vestiario e medicine. I partigiani, a seguito di contatti radio, facevano tre fuochi in una zona abbastanza pianeggiante, così gli aerei, arrivando di notte, potevano individuare la zona dove fare i lanci.
Viaggiavamo a piedi in fila indiana tutta la notte, senza alcuna luce, sempre per sentieri attraverso le montagne, condotti da guide che dovevano conoscere bene le strade.
Una guida ci portava in un certo punto e poi da lì un’altra le dava il cambio. Comunque, dopo alcune notti così, ci accorgemmo che non si procedeva. Sembrava che girassimo sempre attorno allo stesso punto.
Allora cominciammo ad innervosirci con la guida, lasciandoci sfuggire anche frasi poco simpatiche.
Quindi decidemmo di viaggiare di giorno. Per vedere se riuscivamo a fare più strada. Mangiavamo quello che potevamo, ci fermavamo presso i diversi contadini che trovavamo lungo il percorso, distribuendoci tra le case vicine. Ricordo queste donne, poverette, che facevano delle grandi infornate di pane, che poi noi mangiavamo ancora rovente, accompagnato da piccoli pezzi di pancetta.
Quando fummo nei pressi di Zocca, ci accingemmo ad attraversare la strada principale, azione molto rischiosa, se fatta di giorno. Siamo nel bel mezzo dell’attraversata, con gli uomini un po’ di qua e un po’ di là dalla strada e sentiamo arrivare una camionetta, che comincia a suonare forte con una campana. E noi, con il cuore in gola: i Tudesc (i Tedeschi)!
Era giorno ed eravamo disarmati: appena due o tre fucili per un centinaio di uomini. Io riuscii ad attraversare la strada, ma una parte di noi era rimasta dall’altra parte.
Ci fecero una ”sinfonia”, ma una fàta sinfunî (una sinfonia tanto grande): trrr, trrr! Fu terribile. Ci sembrò che ci scaricassero addosso tutte le armi!
Ma nessuno di noi rimase colpito.
Certo, i Tedeschi si erano accorti che c’erano dei giovani, ma non sapevano che stavamo andando a Montefiorino e non sapevano che eravamo disarmati. Forse avevano sparato in aria a casaccio.
Quando se ne furono andati, il resto del gruppo potè finalmente attraversare la strada per riunirsi agli altri.
Però, in seguito al quel fatto lì, i miei compagni cominciarono a dire: vuoi dire che la guida non sapesse che quello era un brutto posto per passare? Infatti, per attraversare la strada nella nostra situazione, bisognava essere almeno in un rettilineo, per poter vedere se arrivava qualcuno, mentre invece lì eravamo in curva. Cominciammo anche a minacciare di ucciderlo. Tanto che lò al taié la làza, al sgumbré (lui tagliò la corda e se ne andò via). E così perdemmo la guida.
Senza guida chi sapeva andare a Montefiorino? Allora ci fu lo sbandamento e il gruppo si divise: una parte tentò comunque di raggiungere Montefiorino e, non so come, sapemmo poi che ci riuscirono. Si aggregarono ad un altro gruppo partigiano che avevamo incontrato e che accettava solo persone armate, così presero solo quelli con il moschetto.
Allora noi di Sasso, in un gruppetto di una ventina, tornammo indietro.
Io tornai a casa mia, però dovevo rimanere nascosto.
Di notte dormivo nella mia stanza, però la mattina presto prendevo un panno sotto il braccio, un libro da leggere, passavo il fiume e poi su per il sentiero che andava só a Mòunbêc (sul monte Baco, tra Sasso e Marzabotto).
Guido Cremonini, il vice-Comandante |
Un bel giorno, ero, come al solito, steso sul panno, accanto al sentiero e mi leggevo un librino. Sento parlare: guèrda chi i’è (guarda chi c’è)!
Erano proprio Guido Cremonini con Giorgio Gardini, che erano stati giù alla Barleda, podere ai piedi di Monte Baco, a prendere dell’acqua fresca con delle borracce, da portare su, dove c’era la loro squadra di venticinque partigiani.
Da Campiuno di Badolo, nei pressi di Monte Adone, si erano spostati lì sul cocuzzolo di Monte Baco.
Sorpresi, i miei vecchi compagni partigiani, mi chiesero: come mai sei qui? Non dovevi essere a Montefiorino? Raccontai tutta la storia e finii col chiedere di andare con loro.
Guido mi rispose che non sapeva cosa dire, perché il capo non era lui. Allora il capo era Bruno Bregolini. Però ritenne che la cosa si poteva fare.
Così venni subito ingaggiato. Mi dissero: domattina presto, quando lasci casa tua, passa da Paganino, dove troverai Peppino Cedrati - faceva il fornaio – che ti consegnerà un sacco di pane, che tu dovrai portare qui sul Monte Baco.
Accettai subito l’incarico, anche se con un po’ di preoccupazione per il carico da portare, perché, sebbene avessi poco nello zaino, dovevo pur sempre trasportare anche una coperta pesante, perché la notte faceva ancora freddo.
Peppino il fornaio mi diede il sacco del pane, che era ancora bollente. Mi metto il sacco in spalla e poi vado giù in fondo al fiume Reno, passo il fiume e comincio a salire. La salita era molto ripida e arrivai sulla vetta del monte, che ero fradicio di sudore.
Inoltre durante il giorno faceva già caldo, perché eravamo nei primi di giugno del ‘44.
Ricordo che mangiammo veramente di gusto. I ragazzi lassù avevano un po’ di formaggio che avevano trovato da qualche contadino, o forse proprietario terriero, perché gli approvvigionamenti allora cercavamo di andarli a fare da qualche signorotto della zona.
Anche se qualcuno a volte recalcitrava un poco, comunque in genere la gente del luogo era molto disponibile verso i partigiani e non solo quando si trovavano di fronte dei ragazzi armati di fucile.
D’altronde, se anche in qualche raro caso, chi ci ospitava avesse voluto avvisare i Tedeschi, sentivamo di non correre alcun rischio, perché non ci fermavamo mai nello stesso posto e nessuno sapeva dove trovarci.
Per esempio, quando eravamo sopra il Monte Baco, il “colpo economico”, cioè il rifornimento di cibo ed indumenti, lo facevamo a Lama di Reno, dove nessuno sapeva dove stavamo.
Rimanemmo circa un mese lì sul Monte Baco e poi ci recammo sul Monte Adone, dove erano già stati in precedenza i miei amici, nella casa Campiuno, abitata allora dalla famiglia di Eugenio Stefanelli, partigiano come noi.
Di giorno stavamo nel bosco e la notte, se faceva brutto tempo, dormivamo in una grotta. In quella stessa grotta, per alcuni anni dopo la guerra, siccome la casa era crollata, vissero i componenti della famiglia che successivamente si stabilì in quel podere.
Qui avvenne un fatto notevole.
Una squadriglia di apparecchi alleati attraversò lo spazio aereo tra Monzuno e Cà di Bocchino, dove c’era una batteria antiaerea tedesca, che colpì un caccia con pilota e due militari.
Il pilota ordinò ai due di buttarsi con il paracadute, per poter proseguire alleggerito nel peso. Un proiettile colpì uno dei due paracadutisti, che quindi precipitò a candela, sfracellandosi al suolo. L’altro, invece, riuscì ad atterrare in un boschetto vicino, nei pressi di Monterumici.
Guido Cremonini con un altro compagno partigiano di nome Dario, per caso, si trovarono lì nei paraggi.
Erano andati in quella zona per contrattare un vitello e videro tutto, sentirono sparare, videro aprirsi il paracadute, videro tutta la scena e si avvicinarono per soccorrere il militare alleato.
Era Bob, un Sudafricano bianco. Aveva delle schegge conficcate nelle gambe, era messo male.
Allora lo portarono nel bosco fitto, e gli dissero: tu rimanere qui. Gli fecero capire, in qualche maniera, perché lui non parlava per niente l’italiano: noi questa sera ti veniamo a prendere.
Ma di lì a poco arrivò una pattuglia tedesca, perché avevano visto che l’aviatore era atterrato lì.
I due compagni videro dal bosco i Tedeschi avvicinarsi alla casa colonica del podere e chiedere all’azdàura (reggitrice) se l’aveva visto e lei: sì sì l’ho visto, ma è andato via.
Loro cercarono e cercarono inutilmente, perché nel frattempo Guido e Dario l’avevano nascosto tanto bene in mezzo al bosco, che non riuscirono a scovarlo.
I due allora tornarono da noi alla base, ci raccontarono il fatto, che erano scappati via in fretta, quando videro la pattuglia dei tedeschi armati di mitra, che insistevano nella ricerca. Bob lo avrebbero fatto prigioniero, ma i partigiani li ammazzavano!
La sera tornammo là a prenderlo. Era ancora nascosto dove l’avevano lasciato. Mi ricordo che andammo con un paio di buoi che trainavano una slitta, che in montagna usavano molto le slitte, anziché i carri o i birocci.
Lo portammo nella casa padronale del podere Vallenera di Badolo e chiamammo su il dottore a curare le ferite, che si erano già un po’ infettate.
Il medico era Gino Nucci, fratello di quel Pino Nucci, che divenne il comandante della brigata Santa Justa della zona di Medelana e Rasiglio.
Gino era il dottore di condotta di Sasso e collaborava con i partigiani, quando c’erano dei feriti, era lui che li andava a curare.
Bob, una volta guarito, non volle restare con noi, ma volle passare il fronte per raggiungere le forze alleate.
Dopo qualche tempo Bregolini, il nostro comandante, andò ad un incontro nella zona di Pianoro, durante il quale si parlò della costituzione della 62esima Brigata Garibaldi.
Alcuni giorni dopo, già in estate inoltrata, fummo raggiunti da una squadra di ragazzi della Lama di Reno. C’era anche Antonio Rossi che ci raccontò di essere stato a Montepastore, dove aveva incontrato il Lupo (Musolesi).
Così una notte partimmo tutti assieme per andare a formare una brigata dalle parti di Monterenzio ai piedi del Monte delle Formiche, nella vallata del torrente Zena.
Là eravamo disseminati in vari gruppi nelle case coloniche della zona, dove dormivamo nei fienili.
Purtroppo, nel giro di pochi giorni, cominciarono ad arrivare in zona le Brigate Nere.
I Repubblichini arrivarono fino in fondo al torrente Zena e cominciarono a sparare con le mitraglie. E noi eravamo là pronti ad aspettarli.
Ma non salirono mai da noi.
Fecero solo un gran fracasso giù in fondo, senza riuscire a venir su, perché se si fossero avvicinati, noi li avremmo visti e colpiti facilmente.
Là dove eravamo accampati, avevamo un somarello che usavamo per andare a prendere la carne e il pane alla sede del Comando partigiano, distante alcuni chilometri. Ci turnavamo in questo compito e quando toccò a me dissi: io non la conosco mica la strada.
Tu non ci pensare, mi risposero i compagni, salta a cavallo del somarello e ti porta lui.
Allora io andai giù con ‘sto somarello: com’era bravo! Per dei sentieri tortuosi! Sopra a dei burroni!
Mi portò laggiù, mi diedero la razione di viveri che mi dovevano, la caricai sul somaro e, naturalmente, al ritorno io andai a piedi, per non sovraccaricare la povera bestia.
Ad un certo punto, quando siamo su un’altura, a metà strada fra il luogo del Comando e la casa dove eravamo alloggiati, comincio a sentire sparare raffiche in continuazione: erano ancora i fascisti che volevano venire su a stanarci.
Fu un’attraversata poco simpatica, perché tra l’altro io avevo soltanto una pistola. E il somarello. Con il quale mi feci scudo, nascondendomi dietro il suo fianco! Pensavo: mi dispiace per lui, però…
Anche quella volta i fascisti arrivarono solo fino a Zena, da dove sparavano su a casaccio e non ebbero il coraggio di salire.
E il somaro non si spaventò. Era buono oltre che bravo!
A volte era buffo. Quando arrivava vicino alla stalla, accelerava il passo, perché era smanioso di entrare e, se trovava la porta aperta, si infilava dentro di volata.
Per fortuna a me non capitò mai, ma al povero Taddeo Zaccaria sì. Quando toccò a lui andare a fare la spesa, arrivò che c’era la porta aperta, il somaro partì, allora lui svelto afferrò l’architrave della stalla e rimase lì appeso, con le gambe a penzoloni e il somaro che correva dentro!
Facevamo dei turni di notte di quattro ore di guardia. Era tremendo il turno da mezzanotte alle 4: non si riusciva a stare svegli, ma bisognava. Allora io mi alzavo in piedi, mi muovevo. Eravamo sempre in due, anche se, mentre uno rimaneva nel punto assegnato, l’altro e un componente di un’altra squadra, facevano una pattuglia che andava avanti.
Comunque rimanemmo poco là a Zena, forse una ventina di giorni, perché era una zona che non ci convinceva.
Quell’episodio dei fascisti che ci avevano sparato contro era stato troppo, pure solo per spaventarci.
Così, ad un certo punto, si era in agosto, decidemmo di tornare sul Monte Adone, con la nostra squadra di venticinque, composta dal gruppo di Sasso più una parte di quello della Lama. Era la squadra comandata da Bruno Bregolini e il vice comandante era praticamente Guido Cremonini.
Gli altri restarono lì a Zena, dove, successivamente, insieme ai gruppi che venivano dalla città di Bologna, confluirono nella 62 esima Garibaldi - comandata da Mariano - che si trasferì poi ai Casoni di Romagna.
Ci mettemmo in cammino, sempre attraverso i boschi.
Quando arrivammo a Livergnano, proprio dove son nato io, in località Ospitale, c’è una piccola vallata e lì dovevamo uscire dalla macchia per attraversare la strada della Futa, che era un poco rialzata rispetto al terreno circostante. Dopo saremmo arrivati giù in fondo al Savena per poi montare verso Brento e sul monte Adone.
Era notte. Ma uscire dalla macchia è sempre un rischio.
E c’era proprio una colonna militare tedesca che transitava, così noi cercammo di passare tra un camion e l’altro per attraversare.
Ma ci videro e incominciarono a sparare, e noi rispondemmo al fuoco! Da una parte e dall’altra della strada, ci fu una grande sparatoria.
Anche quella volta il nostro gruppo ne uscì indenne.
Quando potemmo passare, raggiungemmo finalmente Monte Adone.
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[Prologo] [1-In guerra] [2-Nella Todt] [3-Nei partigiani] [4-Da ferito] [5-Sfollati e deportati] [6-A Bologna] [7-Da Ponte Ronca al carcere] [8-La Liberazione] [9-Il Dopoguerra]
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 4
DA FERITO
Rimanemmo lì qualche tempo e poi ci spostammo ancora e ci stabilimmo di nuovo dalle parti del monte Baco.
Eravamo accampati non proprio sul monte, bensì in una base in mezzo al bosco nella zona di S. Silvestro. Lì dormivamo all’addiaccio.
E lì ci arrivarono addosso.
Il nostro accampamento era rivolto verso il fiume Reno.
Fu di giorno, stranamente.
I caccia avevano cominciato a bombardare Marzabotto. Allora parte dei ragazzi si trasferì sopra ad un costone per vedere lo spettacolo – se così si può definire – delle bombe che si staccavano dagli aerei.
Io invece, insieme a Giorgio Gardini, Orazio Baia e un polacco, Ugo, che si era unito a noi, rimanemmo lì tranquilli, lontani dal rumore assordante del bombardamento in corso.
Ad un certo punto il Polacco dice: io sentire parlare tedesco. Noi ci mettemmo in ascolto ma non sentimmo niente. Allora pensammo che fosse la gran paura che aveva, perché se lo prendevano lo facevano fuori, visto che era un prigioniero scappato dai Tedeschi.
Del resto del coraggio da vendere non ne aveva mica nessuno eh!
Per cui non demmo peso alle parole di Ugo.
A torto, perché, un attimo dopo, Orazio, che era un po’ scostato da noi, esclamò: i tudésc (i tedeschi)! Come disse così, cominciarono a sparare.
Li avevamo a pochi metri da noi. Erano SS.
Io mi voltai per afferrare il fucile che avevo accanto, ma venni subito colpito, e non ebbi più la forza di far niente!
Scaricarono le armi su di noi e fuggirono.
Era il 14 settembre 1944, tra le due e le tre di pomeriggio.
Non si è mai capito perché arrivarono lì, le SS, che non avevano l’abitudine di inoltrarsi nel bosco, dove temevano di più i partigiani.
Avevano il comando a Sirano, dove adesso c’è il Piccolo Paradiso, eppure arrivarono proprio lì!
Mi sono anche sempre chiesto se sapevano che eravamo lassù e che in quel momento ci eravamo divisi.
Appena fui colpito, mi lanciai giù di traverso nel bosco. Sentivo il braccio che mi sanguinava e ancora non m’ero accorto della ferita più grave.
Gardini mi raggiunse subito. Gli dico: Giorgio, a sòun fré (sono ferito)!
Lui vide il mio braccio sanguinante e si accorse che perdevo molto sangue, allora si strappò via prontamente i cordoni delle braghe alla zuava e mi legò il braccio.
Però ad un certo punto sentii che non riuscivo a respirare.
Dicevo: mé a fâg fadìga a respiré (fatico a respirare), Giorgio. Ed emettevo un rantolo. Giorgio mi guardò bene ed esclamò: ma se hai una ferita anche nella schiena! La mia maglia era bucata e dal foro scorreva il sangue copioso lungo la schiena!
La pallottola era rimasta incastrata tra pleura e polmone e non uscì più da lì.
Nel frattempo, quei ragazzi che si erano allontanati per assistere al bombardamento sopra Marzabotto, avevano sentito sparare, ma non sapevano cosa fare perché erano tutti disarmati, che avevano lasciato le armi nell’accampamento, dal quale si erano allontanati alcune decine di metri.
Quando tutto tacque, tornarono alla base e videro cos’era successo.
Da quel momento i miei compagni non cessarono mai di prendersi cura di me. Improvvisarono una barella con due sacchi di tela juta per il grano. Tagliarono il fondo dei sacchi, infilarono due bastoni e mi trasportarono così, la sera stessa, nel podere di Stanzano di Sotto, presso la casa colonica della famiglia Bernardi.
Contemporaneamente partì una staffetta per andare a prendere il medico. Che era sempre quel dottor Gino Nucci, citato prima, che mi medicò le ferite e mi fasciò il braccio. Aveva portato con sé dei ferri per vedere se riusciva a togliermi la pallottola dalla schiena.
Ricordo che mi entrò con un ferro così lungo! Però non riuscì a far nulla perché la pallottola era andata troppo in profondità, ma né lui né altri potevano saperlo. Si è saputo solo con le radiografie che mi han poi fatto dopo la guerra, dove realmente si era conficcata.
Io non sentivo dolore in quella posizione. Ma mi era venuta la febbre alta. E poi faticavo sempre a respirare.
Sentii il medico dire ai miei compagni: speriamo che se la cavi.
Allora, in attesa che si calmassero un po’ le acque, mi portarono alla Lama di Reno, presso una famiglia. Rimasi lì quella notte e, siccome il giorno dopo era tutto tranquillo, la notte seguente mi portarono in uno di quei rifugi che, i ragazzi del luogo, avevano ricavato nel monte sovrastante la Lama.
Dopo alcuni giorni, Cremonini con il suo gruppo, preferendo spostarsi verso le zone di Medelana, passò il fiume e andò in Dola, località delle Lagune di Sasso Marconi.
Prima di partire mi disse: tu rimani qui con gli altri della Lama. Erano i ragazzi dello stesso gruppo con cui eravamo andati nella zona di Monte delle Formiche.
Quindi io rimasi là, perché fra l’altro si sentiva già il tuono del cannone alleato.
C’era chi diceva: massimo cinque giorni abbiamo gli alleati qui, siamo liberi.
Purtroppo queste supposizioni si rivelarono poi molto lontane dalla realtà.
Noi avevamo i nervi a fior di pelle: qualsiasi rumore sospetto ci metteva in allarme.
Come dimostra l’episodio che ci capitò, appena sistemati in quel rifugio.
Sentimmo sparare dalla cima del monte, erano spari grossi.
Allora pensammo subito: siamo attaccati dai Tedeschi! Tutti si precipitano fuori dai rifugi con le armi per andare a vedere cosa sta succedendo.
Ed io là dentro c’a tiréva al fià pra’l bisâc (che respiravo attraverso le tasche), rimasi là come un salame, perché non mi muovevo, avevo la febbre a 40.
Quando i miei compagni arrivarono in cima la monte, rimasero esterrefatti nel vedere la scena che si presentò davanti ai loro occhi: i ragazzini della Lama, divertiti, davanti ad un fuoco, in cui lanciavano dei proiettili che esplodevano facendo tutto quel rumore.
Lassù, durante l’estate, era caduto un aereo alleato, abbattuto dai Tedeschi. Così i ragazzini, appena poterono, andarono a recuperare i proiettili e accesero un fuoco per farli esplodere.
Anche nelle situazioni più tragiche, i ragazzi trovano sempre qualcosa da fare per divertimento!
Ma in quell’occasione successe un altro fatto allarmante.
In quei giorni i miei compagni avevano recuperato un Tedesco che si chiamava Willi. L’avevano visto gironzolare nei dintorni, allora gli si erano avvicinati per chiedere cosa stesse cercando. Io volere andare nei partigiani. Allora provarono ad interrogarlo attraverso Max, un Austriaco che era con noi nella nostra squadra e lui ci rassicurò: sì è buono.
Ma Willi non resse alla finta sparatoria dei ragazzini della Lama, forse pensò che eravamo attaccati e si mise in fuga.
Allora Luciano dal Cutzà (del podere Codicè) della Lama, lo rincorse gridando: Willi fermati, fermati! E lui: no!
Riuscì a raggiungere la Porrettana, fermare un camion tedesco, montò su e via che andò. Allora noi subito pensammo: è una spia.
A causa di questo episodio, ritenemmo troppo rischioso rimanere oltre in quella zona. Allora tutti via da lì, per evitare il rastrellamento.
E andammo a finire in un rifugio in un canalone nei pressi di Campione di Canovella di Marzabotto.
Ma, siccome io avevo sempre una gran febbre, l’Emma, l’azdàura della casa colonica di Campione disse: purtél bàin in cà c’al ragàz lé che almàinc a i gn’é brisa l’umdità (portatelo in casa quel ragazzo che almeno non c’è umidità). Perché pioveva.
In quei giorni pioveva sempre.
Allora mi portarono lì nella casa colonica, dove abitava una famiglia, con cui, per caso, avevo un lontano legame di parentela, perché la sorella dell’azdaura era una mia zia acquisita.
L’Emma, visto che non avevano altro posto dove mettere un ferito febbricitante, mi mise a letto con il figlio più piccolo Dino, allora poco più che dodicenne.
Dormii con lui nello stesso letto per circa una settimana e ancora oggi, ormai vecchi, ci scherziamo sopra.
Ma un fatto tira l’altro e non ci si può mai fermare.
Successe che da Dola, la squadra di Cremonini riuscì a recuperare del tabacco, allora Guido, che era un giusto, disse: bisògna purtè la raziòun anc’a Martino, parché Martino l’é int la nostra squedra (bisogna portare la sua razione anche a Martino, che è della nostra squadra).
Fu così che Zaccaria Taddeo, lo stesso che, al Monte delle Formiche, era rimasto appeso alla trave della stalla dove si infilava il somarello di corsa, partì a piedi da Dola per portarmi la mia razione di sigarette, lì in questa casa di Campione.
Non so come fece a sapere che ero lì. Forse fu l’efficienza della rete informativa tra i gruppi partigiani, nonostante la necessità di muoversi in segretezza.
Quel giorno Zaccaria, dopo avermi consegnato le sigarette, nella camera da letto dove giacevo febbricitante, affacciandosi alla finestra, esclamò: eh Martéin a i é Funséin c’al va a cóiar a gl’ôv (Martino, c’è Fonsino che va a raccogliere le uova)! Ti ricordi di Fonsino che raccoglieva le uova per venderle? Vuoi mandargli a dire qualcosa a tuo padre. Se hai voglia di parlare con lui…
Fonsino era l’ovarolo. Era senza un braccio e girava per le case coloniche, a raccogliere le uova, quindi aveva facilità di comunicazione fra case anche molto distanti fra loro.
Allora io tutto emozionato: sìì, vai a dire a mio padre se mi viene a trovare!
Come mia sorella Ede mi raccontò successivamente, una mattina nostro padre disse a lei poco più che ragazzina: guérna bàin al bîsti che mé a vâg a vàdar che i m’àin dét c’a i é Martino in t’na cà só a Marzabòt, a Canvéla (governa tu le bestie, che io vado a vedere Martino che mi hanno detto essere in una casa su a Marzabotto, a Canovella)…
Fu un errore, perché quando mio padre, poveretto, puntualmente arrivò per vedermi, io non c’ero già più.
La sera prima mi avevano portato su in brigata Stella Rossa. E vennero anche Bruno e Marcello, i fratelli maggiori di Dino.
L’Emma l’azdàura disse a mio padre: ah i l’ain purtè só parché là só a i é al dutour (l’hanno portato lassù perché là c’è il dottore)…
Il dottore Gino Nucci non poteva più a venirmi a curare perché ad un certo momento disse che era pedinato e probabilmente era vero! Ci consigliò di andare su in Brigata Stella Rossa, che era di stanza nelle località di Monte Sole, dove avrei trovato l’assistenza di un medico.
E così, mi caricarono su un carro, trainato da due bestie (quella era la nostra ambulanza!) e mi portarono a Caprara, nel paesino con la bottega con l’osteria. Effettivamente in brigata trovammo il medico. Era un giovane professionista alle prime armi. Poveretto, era sempre lì che mi curava, mi auscultava, mi faceva delle iniezioni. Faceva tutto il possibile. Ma la febbre non calava.
Allora non c’era ancora la penicillina, quindi si potevano usare solo dei sulfamidici.
Una sera venne il Lupo a cavallo a far visita ai feriti. Fu molto asciutto, come era sua abitudine, ma noi fummo contenti che fosse venuto.
Di lì a neanche una settimana, una mattina nera, che veniva giù quella pioggerellina fitta, proprio quella che bagna, era il 29 settembre del ’44, arriva lì una staffetta: ragàz bisògna sgumbrèr, andé in vàta a Mòunsòul, c’a i é i tudesc chi véinan só da tóti al pèrt, chi brùsan tóti al cà, i màzan, i màzan, i spèran (ragazzi bisogna sgombrare, andare in cima al monte Sole, che ci sono i Tedeschi che vengono su da tutte le parti, che bruciano tutte le case, ammazzano, ammazzano, sparano)…
Allora bisogna sgombrare e andare sulla cima di Monte Sole.
A Martino tocca alzarsi dal suo giaciglio di ferito.
Avevo un “attendente”, era un partigiano che mi doveva assistere. Allora mi aiutò ad infilarmi le scarpe e ci avviammo per salire sul monte Sole. Da Caprara, si arriva sulla sella e poi si sale a destra.
Quando arrivammo ai piedi della montagna, il comandante (allora eravamo comandati da Otello Fanti di Monzuno, laureato in medicina) mi disse: ti carichiamo sul cavallo.
Era un cavallo bianco!
E io: no, no. Non me la sentivo proprio di salire su un cavallo bianco, che avrebbe costituito un ottimo bersaglio per i Tedeschi in arrivo.
Ero sfinito, non mangiavo, avevo sempre la febbre alta, però dissi: preferisco andare su a piedi, se qualcuno mi sorregge.
Proprio in quel frangente, quel compagno partigiano che doveva star sempre con me, che aveva il mio zaino, con dentro le sigarette, un po’ di roba per il cambio e una coperta (era quella che faceva un po’ di volume), sparì con tutto, sparì il mio assistente e sparì il mio zaino.
Forse, sentendo quello che stava succedendo, se l’era vista brutta e preferì fare per conto proprio.
Quello che fece era considerato gravissimo, da passare per le armi! Lo trovarono dopo la guerra: i dén ‘na carga ed bôt (gli diedero una carica di botte)…Lo “strisciarono” forte, come mi dissero poi i ragazzi della Lama. Poteva anche andargli peggio.
A quel punto, altri due compagni tra i più robusti, Luciano e Loris, uno di qua, uno di là, mi portarono su di peso. Io avevo una coperta in testa, per ripararmi un po’ dall’acqua.
Lassù in cima al monte Sole pioveva sempre, laggiù sparavano, io ero senza forze, ma non ero solo, perché lassù era fitto così. Avevo i miei amici: i ragazzi della Lama.
Dalla cima di Monte Sole assistemmo all’immane tragedia: le case bruciavano tutte a vista d’occhio!
Per di più i Tedeschi cominciarono a sparare con i mortai verso di noi. Mi ricordo che mi scoppiò un mortaio tanto vicino, che mi coprì di terra.
Le SS cercavano di salire, ma appena puntavano su, i miei compagni, che erano tutti appostati circa a metà del monte, li placcavano con le armi.
Io ero rimasto più in alto sul monte. Si piazzò vicino a me un partigiano che veniva dalla Toscana. Aveva un mitragliatore e sparava verso una stradina che saliva da Cerpiano dove c’erano delle pattuglie di Tedeschi che passavano di là, a gruppetti di sette, otto.
Era distante però il fucile mitragliatore spara lontano. Si appoggiava ad un cavalletto e gli occorreva l’aiuto di uno che gli tenesse i nastri delle cartucce. Allora io mi adoprai come potei per dare una mano.
Date le mie condizioni, stavo sempre a terra e udivo le sue parole: accidenti ce n’è un altro, ora c’è un gruppo, ora sparo una raffica… a fatica mi alzai e vidi che quando lui sparava quelli laggiù saltavano, facevano delle capriole! Si buttavano giù, forse qualcuno rimase ferito, forse ucciso, chi lo sa, a quella distanza lì…oppure si sdraiavano per terra per proteggersi dalle mitragliate, chissà.
Rimasi tutto il giorno con quel Toscano, perché i miei compagni erano tutti a combattere più in basso.
E intanto continuavano senza tregua gli scoppi del mortaio…che è tremendo! Pensavo: se insistono a sparare con i mortai qui ci fanno fuori tutti.
Spararono diversi colpi. Qualcuno di noi rimase ferito con qualche scheggia, però di morti io non ho sentito che ce ne furono.
Poi finalmente cessarono di sparare con i mortai.
Fu allora che cominciammo a sentire gli urli (che ancora mi risuonano nelle orecchie) della gente, delle donne, dei vecchi, tutti quelli che si erano rifugiati dentro la chiesa di Casaglia. Si erano rifugiati lì dentro credendo di essere protetti, nella chiesa, il prete che diceva il rosario …era piena di gente…arrivarono i Tedeschi…fuori tutti, compreso il prete, li portarono…una strage!
Da lassù non si poteva vedere la chiesa, invece, da un certo punto, si vede il cimitero e lì li vedemmo arrivare. Li portarono là dentro, poi cominciarono a sparare…ma era sempre un urlo…
C’erano con noi dei partigiani che abitavano lì. Erano disperati, gli occhi pieni di angoscia, perché sapevano che avevano massacrato i loro genitori. Ricordo fra i tanti un certo Luccarini Antonio, poverino, che gli avevano ammazzato i genitori e tutti i suoi fratellini.
Non ci saremmo mai aspettati l’orrendo crimine che si stava svolgendo sotto i nostri occhi. Non avevano ancora fatto di quelle cose lì. Quella lì fu proprio il culmine!
Certo, Reder aveva la fama di essere un carnefice nella zona della Toscana e, nel venire su con il fronte, anche lì aveva fatto delle cose …non per niente lo portarono lì a combattere, a estirpare i partigiani.
Ah io quando cominciai a sentire trucidare tutta questa gente, proprio non sapevo cosa pensare…le case bruciavano tutte quante…la gente l’ammazzavano in quella maniera lì…noi eravamo rimasti là sopra...
Come era già avvenuto in altri rastrellamenti, di giorno vanno su nelle montagne a cercare di stanare i partigiani, e la notte si ritirano a valle.
Così fu anche lì.
Quella sera noi non sapevamo ancora che il Lupo era morto, ma non c’era e quindi pensavamo che qualcosa di grave gli fosse accaduto.
Tutto lasciava supporre che fosse caduto. Allora un partigiano ex ufficiale dell’esercito, un certo Fanti, che non ho mai più rivisto dopo, prese il comando.
Cominciò a radunare tutti i partigiani fra Monte Sole e Monte Caprara e ci condusse dietro Monte Salvaro, dentro a un canalone, soprattutto per nasconderci, perché non avevamo più tante munizioni ormai, dato che erano state consumate durante la giornata per tener a bada i Tedeschi.
Eravamo tutti là dentro a quel canalone e io stavo così male, per quello che avevo visto e udito, oltre ad essere ormai allo stremo delle forze, fradicio per la pioggia insistente e quella posizione imbucata non mi piaceva affatto. Ad un certo punto sentiamo tante schioppettate provenire dall’alto, allora, con i nervi a fior di pelle, subito pensiamo: siamo attaccati, si sono accorti che siamo qui e ci vengono addosso.
Se fossero arrivati lì sopra al canalone, gli bastavano alcune bombe a mano e ci facevano fuori tutti. I miei compagni subito si appostarono con quel po’ che avevano ancora, pronti a combattere come potevano.
Di punto in bianco, tutto cessò. E di lì a poco sentimmo sfrascare il bosco e vedemmo arrivare una pattuglia dei nostri.
Erano andati a fare un giro di perlustrazione su quelle mulattiere lì nei dintorni, quando, in una curva, si scontrarono con una pattuglia tedesca. Ma loro furono più svelti e fecero fuori tutti.
Noi, ignari in quel canalone, avevamo preso un bello spavento, nel sentire tutti quegli spari.
Sempre quella sera del 29 settembre, mi si avvicinò il comandante e mi disse: abbiamo deciso che tutti i feriti li facciamo passare di là dal fronte (che era a Lagaro di Castiglione dei Pepoli, non molto lontano da lì), perché non sappiamo più come fare, che non abbiamo più le case dove poterci appoggiare, per mangiare e tutto il resto.
Io gli risposi che non me la sentivo di passare il fronte perché ero certo di non averne la forza. Per passare il fronte bisogna essere svelti, bisogna correre per attraversare le 2 linee: i Tedeschi qua e gli Alleati di là.
Lui capì che effettivamente sarebbe stato impossibile per me, ma molti, quelli feriti lievi, passarono il fronte e furono poi ricoverati a Firenze, nell’ospedale militare. Così io tornai indietro insieme ai miei amici e compagni di Lama di Reno, un gruppo di una ventina. Pian piano arrivammo su nei monti della Lama, dove quei ragazzi avevano ricavato dei piccoli rifugi nella montagna. Ci si poteva stare al massimo in quattro in ognuno. Adesso non ci saranno più quei rifugi. Saranno crollati. Ci si andava passando dai Faiè, son quelle case lassù che si vedono dalla strada. Lì attorno ci sono i poderi di Brolo, Campo Fedele e la Casetta.
Quindi ci distribuimmo in questi rifugi. I ragazzi della Lama avevano le famiglie giù in paese, così riuscivano a racimolare qualcosa da mangiare.
E ricominciò a piovere e piovere. Io avevo sempre quella coperta, che me l’asciugai addosso.
Era il 30 settembre 1944.
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 2
NELLA TODT
Dopo la breve esperienza da militare, in cui la parte più avventurosa fu quella del ritorno, il giovane Martino non poté certo adagiarsi ad una vita tranquilla. Tutto doveva ancora succedere. E il suo racconto continua incalzante.
Io ero arrivato a casa, ma i Tedeschi erano un grosso problema perché erano già arrivati dappertutto e bisognava stare molto in guardia.
Andavano a cercare i giovani per portarli via, dove avevano bisogno per lavorare.
Io stavo sempre molto attento e non andavo certo tranquillamente per strada.
Inoltre, a seguito della costituzione della Repubblica di Salò, eravamo ricercati anche dai fascisti, che ci volevano inquadrare nel nuovo Esercito Repubblichino.
Alle soglie dell’inverno, quel Pierino che era sfollato dai Comelli di Villa Sanuti, seppe della Todt, un’organizzazione paramilitare tedesca che reclutava i giovani, la gente valida, per lavorare nelle fortificazioni della Linea Gotica. Facevano delle grandi fosse anticarro, trincee, minavano i campi.
Allora quel giovane mi disse: mi hanno richiamato nei militari, ma io non voglio andare. C’è la possibilità di andare a lavorare nella Todt, qui nei paraggi, così ci danno il documento, con il quale non ci può far niente nessuno.
Così entrambi andammo proprio lì vicino, a Sperticano di Marzabotto, dove c’era un impresario, certo Lenzi, che aveva il compito, d’accordo con i Tedeschi naturalmente, di reclutare i giovani e di mandarli su alla Futa, dove stavano lavorando per la Linea Gotica. Una parte di noi (tra cui anch’io) venne mandata a Montecarelli alla Futa e un’altra parte a Baragazza, perché la Linea Gotica passava da lì.
I giovani che erano scappati dai militari erano praticamente tutti impiegati lì.
Perché non sapevamo ancora niente del movimento partigiano, inoltre si avvicinava l’inverno e non avremmo potuto restare alla macchia.
Lassù, per dormire, ci avevano distribuito presso due case coloniche, una a poche centinaia di metri dall’altra. Erano costruite da poco e ancora disabitate, così noi fummo ricoverati lì, dove c’erano diverse stanze, da basso facevano la cucina e al piano di sopra c’erano le nostre camere da letto.
Lì c’erano tutti gli attrezzi che servivano: picconi, zappe, badili ecc. e lavoravamo in quei canaloni, che erano le grandi fosse anticarro.
Noi lavoravamo sodo, ma non ci ammazzavamo di fatica.
Loro non erano dei negrieri. Inoltre ci pagavano, anche se molto meno degli operai che lavoravano in officina.
I Tedeschi arrivavano lì qualche volta, ma noi eravamo comandati da degli Italiani. C’erano degli assistenti italiani, che a loro volta avevano dei tecnici tedeschi che tracciavano le linee da realizzare.
Ma c’era sempre il rischio che ad un certo momento ci caricassero su degli automezzi e ci portassero in Germania. C’era sempre questo terrore. Tanto è vero che io e un gruppo di miei amici alla sera non dormivamo più lì sul luogo di lavoro, ma andavamo in una casa disabitata più lontano. Prendevamo con noi una coperta e andavamo a dormire là e la mattina tornavamo lì per lavorare.
Ogni quindici giorni, di sabato, tornavamo a casa in permesso e il lunedì bisognava essere di nuovo lassù.
Durante questi permessi passavamo gran parte del tempo in viaggio. Andavamo a piedi da Montecarelli a Pian del Voglio.
Impiegavamo tre, quattro ore! A Pian del Voglio c’era la corriera che ci portava alla stazione di Sasso, per poi proseguire per Bologna.
Una volta arrivammo a Pian del Voglio la sera sul tardi, entrammo in un’osteria del luogo e lì trovammo Guercioli, il bigliettaio della corriera. Gli chiedemmo, come eravamo soliti fare, a che ora saremmo partiti l’indomani mattina: Guercioli, allora domattina quando si parte? E lui: domattina non si parte. E perché? Perché abbiamo il motore in panne.
Faceva ancora molto freddo. Ma da Pian del Voglio raggiungemmo ugualmente Rioveggio a piedi, tanta era la voglia di tornare a casa. Quando fummo a Rioveggio, avemmo la fortuna di imbatterci in un camioncino, óun di chi camiunzéin cinéin (uno di quelli piccoli).
Martino e i compagni della Todt, durante un viaggio di permesso. Notare le valigie di cartone legate con lo spago. In ordine da sinistra a destra: |
Eravamo in quattro, forse cinque, ci diede il passaggio e ci portò fino alla stazione di Sasso.
Fu proprio durante uno di questi permessi che un giorno arrivò lì a casa mia un brigatista della Brigata Nera.
Era uno della Fontana, in borghese e disse: io ho avuto ordine dal comando di venire a casa, vestirti in divisa, prelevarti e portarti a Sasso, perché tu risulti renitente alla leva. Allora gli dissi: va bene io vengo a Sasso, ma non sono renitente alla leva, perché ho un documento che dimostra che lavoro per la Todt.
Detto e fatto. Andai a Sasso e mi presentai al comando della Brigata, che si trovava dove ora c’è la biblioteca comunale: a i’éran dal fati fâz là dàintar (c’erano certe facce là dentro)!
Dissi: guardate che io sono in regola. E mostrai il documento della Todt.
Mi risposero: va bàin (va bene). La faccenda era stata chiarita.
Il capo era il capostazione di Sasso. Era il federale ed era il capo dei fascisti della repubblica di Salò.
L’atmosfera diventava sempre più scottante, con gli Italiani fascisti da una parte e i Tedeschi dall’altra.
Poi, pian piano, qualcuno cominciò ad indirizzarci, così quando venne la primavera scappammo quasi tutti da lassù.
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