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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 4
DA FERITO
Rimanemmo lì qualche tempo e poi ci spostammo ancora e ci stabilimmo di nuovo dalle parti del monte Baco.
Eravamo accampati non proprio sul monte, bensì in una base in mezzo al bosco nella zona di S. Silvestro. Lì dormivamo all’addiaccio.
E lì ci arrivarono addosso.
Il nostro accampamento era rivolto verso il fiume Reno.
Fu di giorno, stranamente.
I caccia avevano cominciato a bombardare Marzabotto. Allora parte dei ragazzi si trasferì sopra ad un costone per vedere lo spettacolo – se così si può definire – delle bombe che si staccavano dagli aerei.
Io invece, insieme a Giorgio Gardini, Orazio Baia e un polacco, Ugo, che si era unito a noi, rimanemmo lì tranquilli, lontani dal rumore assordante del bombardamento in corso.
Ad un certo punto il Polacco dice: io sentire parlare tedesco. Noi ci mettemmo in ascolto ma non sentimmo niente. Allora pensammo che fosse la gran paura che aveva, perché se lo prendevano lo facevano fuori, visto che era un prigioniero scappato dai Tedeschi.
Del resto del coraggio da vendere non ne aveva mica nessuno eh!
Per cui non demmo peso alle parole di Ugo.
A torto, perché, un attimo dopo, Orazio, che era un po’ scostato da noi, esclamò: i tudésc (i tedeschi)! Come disse così, cominciarono a sparare.
Li avevamo a pochi metri da noi. Erano SS.
Io mi voltai per afferrare il fucile che avevo accanto, ma venni subito colpito, e non ebbi più la forza di far niente!
Scaricarono le armi su di noi e fuggirono.
Era il 14 settembre 1944, tra le due e le tre di pomeriggio.
Non si è mai capito perché arrivarono lì, le SS, che non avevano l’abitudine di inoltrarsi nel bosco, dove temevano di più i partigiani.
Avevano il comando a Sirano, dove adesso c’è il Piccolo Paradiso, eppure arrivarono proprio lì!
Mi sono anche sempre chiesto se sapevano che eravamo lassù e che in quel momento ci eravamo divisi.
Appena fui colpito, mi lanciai giù di traverso nel bosco. Sentivo il braccio che mi sanguinava e ancora non m’ero accorto della ferita più grave.
Gardini mi raggiunse subito. Gli dico: Giorgio, a sòun fré (sono ferito)!
Lui vide il mio braccio sanguinante e si accorse che perdevo molto sangue, allora si strappò via prontamente i cordoni delle braghe alla zuava e mi legò il braccio.
Però ad un certo punto sentii che non riuscivo a respirare.
Dicevo: mé a fâg fadìga a respiré (fatico a respirare), Giorgio. Ed emettevo un rantolo. Giorgio mi guardò bene ed esclamò: ma se hai una ferita anche nella schiena! La mia maglia era bucata e dal foro scorreva il sangue copioso lungo la schiena!
La pallottola era rimasta incastrata tra pleura e polmone e non uscì più da lì.
Nel frattempo, quei ragazzi che si erano allontanati per assistere al bombardamento sopra Marzabotto, avevano sentito sparare, ma non sapevano cosa fare perché erano tutti disarmati, che avevano lasciato le armi nell’accampamento, dal quale si erano allontanati alcune decine di metri.
Quando tutto tacque, tornarono alla base e videro cos’era successo.
Da quel momento i miei compagni non cessarono mai di prendersi cura di me. Improvvisarono una barella con due sacchi di tela juta per il grano. Tagliarono il fondo dei sacchi, infilarono due bastoni e mi trasportarono così, la sera stessa, nel podere di Stanzano di Sotto, presso la casa colonica della famiglia Bernardi.
Contemporaneamente partì una staffetta per andare a prendere il medico. Che era sempre quel dottor Gino Nucci, citato prima, che mi medicò le ferite e mi fasciò il braccio. Aveva portato con sé dei ferri per vedere se riusciva a togliermi la pallottola dalla schiena.
Ricordo che mi entrò con un ferro così lungo! Però non riuscì a far nulla perché la pallottola era andata troppo in profondità, ma né lui né altri potevano saperlo. Si è saputo solo con le radiografie che mi han poi fatto dopo la guerra, dove realmente si era conficcata.
Io non sentivo dolore in quella posizione. Ma mi era venuta la febbre alta. E poi faticavo sempre a respirare.
Sentii il medico dire ai miei compagni: speriamo che se la cavi.
Allora, in attesa che si calmassero un po’ le acque, mi portarono alla Lama di Reno, presso una famiglia. Rimasi lì quella notte e, siccome il giorno dopo era tutto tranquillo, la notte seguente mi portarono in uno di quei rifugi che, i ragazzi del luogo, avevano ricavato nel monte sovrastante la Lama.
Dopo alcuni giorni, Cremonini con il suo gruppo, preferendo spostarsi verso le zone di Medelana, passò il fiume e andò in Dola, località delle Lagune di Sasso Marconi.
Prima di partire mi disse: tu rimani qui con gli altri della Lama. Erano i ragazzi dello stesso gruppo con cui eravamo andati nella zona di Monte delle Formiche.
Quindi io rimasi là, perché fra l’altro si sentiva già il tuono del cannone alleato.
C’era chi diceva: massimo cinque giorni abbiamo gli alleati qui, siamo liberi.
Purtroppo queste supposizioni si rivelarono poi molto lontane dalla realtà.
Noi avevamo i nervi a fior di pelle: qualsiasi rumore sospetto ci metteva in allarme.
Come dimostra l’episodio che ci capitò, appena sistemati in quel rifugio.
Sentimmo sparare dalla cima del monte, erano spari grossi.
Allora pensammo subito: siamo attaccati dai Tedeschi! Tutti si precipitano fuori dai rifugi con le armi per andare a vedere cosa sta succedendo.
Ed io là dentro c’a tiréva al fià pra’l bisâc (che respiravo attraverso le tasche), rimasi là come un salame, perché non mi muovevo, avevo la febbre a 40.
Quando i miei compagni arrivarono in cima la monte, rimasero esterrefatti nel vedere la scena che si presentò davanti ai loro occhi: i ragazzini della Lama, divertiti, davanti ad un fuoco, in cui lanciavano dei proiettili che esplodevano facendo tutto quel rumore.
Lassù, durante l’estate, era caduto un aereo alleato, abbattuto dai Tedeschi. Così i ragazzini, appena poterono, andarono a recuperare i proiettili e accesero un fuoco per farli esplodere.
Anche nelle situazioni più tragiche, i ragazzi trovano sempre qualcosa da fare per divertimento!
Ma in quell’occasione successe un altro fatto allarmante.
In quei giorni i miei compagni avevano recuperato un Tedesco che si chiamava Willi. L’avevano visto gironzolare nei dintorni, allora gli si erano avvicinati per chiedere cosa stesse cercando. Io volere andare nei partigiani. Allora provarono ad interrogarlo attraverso Max, un Austriaco che era con noi nella nostra squadra e lui ci rassicurò: sì è buono.
Ma Willi non resse alla finta sparatoria dei ragazzini della Lama, forse pensò che eravamo attaccati e si mise in fuga.
Allora Luciano dal Cutzà (del podere Codicè) della Lama, lo rincorse gridando: Willi fermati, fermati! E lui: no!
Riuscì a raggiungere la Porrettana, fermare un camion tedesco, montò su e via che andò. Allora noi subito pensammo: è una spia.
A causa di questo episodio, ritenemmo troppo rischioso rimanere oltre in quella zona. Allora tutti via da lì, per evitare il rastrellamento.
E andammo a finire in un rifugio in un canalone nei pressi di Campione di Canovella di Marzabotto.
Ma, siccome io avevo sempre una gran febbre, l’Emma, l’azdàura della casa colonica di Campione disse: purtél bàin in cà c’al ragàz lé che almàinc a i gn’é brisa l’umdità (portatelo in casa quel ragazzo che almeno non c’è umidità). Perché pioveva.
In quei giorni pioveva sempre.
Allora mi portarono lì nella casa colonica, dove abitava una famiglia, con cui, per caso, avevo un lontano legame di parentela, perché la sorella dell’azdaura era una mia zia acquisita.
L’Emma, visto che non avevano altro posto dove mettere un ferito febbricitante, mi mise a letto con il figlio più piccolo Dino, allora poco più che dodicenne.
Dormii con lui nello stesso letto per circa una settimana e ancora oggi, ormai vecchi, ci scherziamo sopra.
Ma un fatto tira l’altro e non ci si può mai fermare.
Successe che da Dola, la squadra di Cremonini riuscì a recuperare del tabacco, allora Guido, che era un giusto, disse: bisògna purtè la raziòun anc’a Martino, parché Martino l’é int la nostra squedra (bisogna portare la sua razione anche a Martino, che è della nostra squadra).
Fu così che Zaccaria Taddeo, lo stesso che, al Monte delle Formiche, era rimasto appeso alla trave della stalla dove si infilava il somarello di corsa, partì a piedi da Dola per portarmi la mia razione di sigarette, lì in questa casa di Campione.
Non so come fece a sapere che ero lì. Forse fu l’efficienza della rete informativa tra i gruppi partigiani, nonostante la necessità di muoversi in segretezza.
Quel giorno Zaccaria, dopo avermi consegnato le sigarette, nella camera da letto dove giacevo febbricitante, affacciandosi alla finestra, esclamò: eh Martéin a i é Funséin c’al va a cóiar a gl’ôv (Martino, c’è Fonsino che va a raccogliere le uova)! Ti ricordi di Fonsino che raccoglieva le uova per venderle? Vuoi mandargli a dire qualcosa a tuo padre. Se hai voglia di parlare con lui…
Fonsino era l’ovarolo. Era senza un braccio e girava per le case coloniche, a raccogliere le uova, quindi aveva facilità di comunicazione fra case anche molto distanti fra loro.
Allora io tutto emozionato: sìì, vai a dire a mio padre se mi viene a trovare!
Come mia sorella Ede mi raccontò successivamente, una mattina nostro padre disse a lei poco più che ragazzina: guérna bàin al bîsti che mé a vâg a vàdar che i m’àin dét c’a i é Martino in t’na cà só a Marzabòt, a Canvéla (governa tu le bestie, che io vado a vedere Martino che mi hanno detto essere in una casa su a Marzabotto, a Canovella)…
Fu un errore, perché quando mio padre, poveretto, puntualmente arrivò per vedermi, io non c’ero già più.
La sera prima mi avevano portato su in brigata Stella Rossa. E vennero anche Bruno e Marcello, i fratelli maggiori di Dino.
L’Emma l’azdàura disse a mio padre: ah i l’ain purtè só parché là só a i é al dutour (l’hanno portato lassù perché là c’è il dottore)…
Il dottore Gino Nucci non poteva più a venirmi a curare perché ad un certo momento disse che era pedinato e probabilmente era vero! Ci consigliò di andare su in Brigata Stella Rossa, che era di stanza nelle località di Monte Sole, dove avrei trovato l’assistenza di un medico.
E così, mi caricarono su un carro, trainato da due bestie (quella era la nostra ambulanza!) e mi portarono a Caprara, nel paesino con la bottega con l’osteria. Effettivamente in brigata trovammo il medico. Era un giovane professionista alle prime armi. Poveretto, era sempre lì che mi curava, mi auscultava, mi faceva delle iniezioni. Faceva tutto il possibile. Ma la febbre non calava.
Allora non c’era ancora la penicillina, quindi si potevano usare solo dei sulfamidici.
Una sera venne il Lupo a cavallo a far visita ai feriti. Fu molto asciutto, come era sua abitudine, ma noi fummo contenti che fosse venuto.
Di lì a neanche una settimana, una mattina nera, che veniva giù quella pioggerellina fitta, proprio quella che bagna, era il 29 settembre del ’44, arriva lì una staffetta: ragàz bisògna sgumbrèr, andé in vàta a Mòunsòul, c’a i é i tudesc chi véinan só da tóti al pèrt, chi brùsan tóti al cà, i màzan, i màzan, i spèran (ragazzi bisogna sgombrare, andare in cima al monte Sole, che ci sono i Tedeschi che vengono su da tutte le parti, che bruciano tutte le case, ammazzano, ammazzano, sparano)…
Allora bisogna sgombrare e andare sulla cima di Monte Sole.
A Martino tocca alzarsi dal suo giaciglio di ferito.
Avevo un “attendente”, era un partigiano che mi doveva assistere. Allora mi aiutò ad infilarmi le scarpe e ci avviammo per salire sul monte Sole. Da Caprara, si arriva sulla sella e poi si sale a destra.
Quando arrivammo ai piedi della montagna, il comandante (allora eravamo comandati da Otello Fanti di Monzuno, laureato in medicina) mi disse: ti carichiamo sul cavallo.
Era un cavallo bianco!
E io: no, no. Non me la sentivo proprio di salire su un cavallo bianco, che avrebbe costituito un ottimo bersaglio per i Tedeschi in arrivo.
Ero sfinito, non mangiavo, avevo sempre la febbre alta, però dissi: preferisco andare su a piedi, se qualcuno mi sorregge.
Proprio in quel frangente, quel compagno partigiano che doveva star sempre con me, che aveva il mio zaino, con dentro le sigarette, un po’ di roba per il cambio e una coperta (era quella che faceva un po’ di volume), sparì con tutto, sparì il mio assistente e sparì il mio zaino.
Forse, sentendo quello che stava succedendo, se l’era vista brutta e preferì fare per conto proprio.
Quello che fece era considerato gravissimo, da passare per le armi! Lo trovarono dopo la guerra: i dén ‘na carga ed bôt (gli diedero una carica di botte)…Lo “strisciarono” forte, come mi dissero poi i ragazzi della Lama. Poteva anche andargli peggio.
A quel punto, altri due compagni tra i più robusti, Luciano e Loris, uno di qua, uno di là, mi portarono su di peso. Io avevo una coperta in testa, per ripararmi un po’ dall’acqua.
Lassù in cima al monte Sole pioveva sempre, laggiù sparavano, io ero senza forze, ma non ero solo, perché lassù era fitto così. Avevo i miei amici: i ragazzi della Lama.
Dalla cima di Monte Sole assistemmo all’immane tragedia: le case bruciavano tutte a vista d’occhio!
Per di più i Tedeschi cominciarono a sparare con i mortai verso di noi. Mi ricordo che mi scoppiò un mortaio tanto vicino, che mi coprì di terra.
Le SS cercavano di salire, ma appena puntavano su, i miei compagni, che erano tutti appostati circa a metà del monte, li placcavano con le armi.
Io ero rimasto più in alto sul monte. Si piazzò vicino a me un partigiano che veniva dalla Toscana. Aveva un mitragliatore e sparava verso una stradina che saliva da Cerpiano dove c’erano delle pattuglie di Tedeschi che passavano di là, a gruppetti di sette, otto.
Era distante però il fucile mitragliatore spara lontano. Si appoggiava ad un cavalletto e gli occorreva l’aiuto di uno che gli tenesse i nastri delle cartucce. Allora io mi adoprai come potei per dare una mano.
Date le mie condizioni, stavo sempre a terra e udivo le sue parole: accidenti ce n’è un altro, ora c’è un gruppo, ora sparo una raffica… a fatica mi alzai e vidi che quando lui sparava quelli laggiù saltavano, facevano delle capriole! Si buttavano giù, forse qualcuno rimase ferito, forse ucciso, chi lo sa, a quella distanza lì…oppure si sdraiavano per terra per proteggersi dalle mitragliate, chissà.
Rimasi tutto il giorno con quel Toscano, perché i miei compagni erano tutti a combattere più in basso.
E intanto continuavano senza tregua gli scoppi del mortaio…che è tremendo! Pensavo: se insistono a sparare con i mortai qui ci fanno fuori tutti.
Spararono diversi colpi. Qualcuno di noi rimase ferito con qualche scheggia, però di morti io non ho sentito che ce ne furono.
Poi finalmente cessarono di sparare con i mortai.
Fu allora che cominciammo a sentire gli urli (che ancora mi risuonano nelle orecchie) della gente, delle donne, dei vecchi, tutti quelli che si erano rifugiati dentro la chiesa di Casaglia. Si erano rifugiati lì dentro credendo di essere protetti, nella chiesa, il prete che diceva il rosario …era piena di gente…arrivarono i Tedeschi…fuori tutti, compreso il prete, li portarono…una strage!
Da lassù non si poteva vedere la chiesa, invece, da un certo punto, si vede il cimitero e lì li vedemmo arrivare. Li portarono là dentro, poi cominciarono a sparare…ma era sempre un urlo…
C’erano con noi dei partigiani che abitavano lì. Erano disperati, gli occhi pieni di angoscia, perché sapevano che avevano massacrato i loro genitori. Ricordo fra i tanti un certo Luccarini Antonio, poverino, che gli avevano ammazzato i genitori e tutti i suoi fratellini.
Non ci saremmo mai aspettati l’orrendo crimine che si stava svolgendo sotto i nostri occhi. Non avevano ancora fatto di quelle cose lì. Quella lì fu proprio il culmine!
Certo, Reder aveva la fama di essere un carnefice nella zona della Toscana e, nel venire su con il fronte, anche lì aveva fatto delle cose …non per niente lo portarono lì a combattere, a estirpare i partigiani.
Ah io quando cominciai a sentire trucidare tutta questa gente, proprio non sapevo cosa pensare…le case bruciavano tutte quante…la gente l’ammazzavano in quella maniera lì…noi eravamo rimasti là sopra...
Come era già avvenuto in altri rastrellamenti, di giorno vanno su nelle montagne a cercare di stanare i partigiani, e la notte si ritirano a valle.
Così fu anche lì.
Quella sera noi non sapevamo ancora che il Lupo era morto, ma non c’era e quindi pensavamo che qualcosa di grave gli fosse accaduto.
Tutto lasciava supporre che fosse caduto. Allora un partigiano ex ufficiale dell’esercito, un certo Fanti, che non ho mai più rivisto dopo, prese il comando.
Cominciò a radunare tutti i partigiani fra Monte Sole e Monte Caprara e ci condusse dietro Monte Salvaro, dentro a un canalone, soprattutto per nasconderci, perché non avevamo più tante munizioni ormai, dato che erano state consumate durante la giornata per tener a bada i Tedeschi.
Eravamo tutti là dentro a quel canalone e io stavo così male, per quello che avevo visto e udito, oltre ad essere ormai allo stremo delle forze, fradicio per la pioggia insistente e quella posizione imbucata non mi piaceva affatto. Ad un certo punto sentiamo tante schioppettate provenire dall’alto, allora, con i nervi a fior di pelle, subito pensiamo: siamo attaccati, si sono accorti che siamo qui e ci vengono addosso.
Se fossero arrivati lì sopra al canalone, gli bastavano alcune bombe a mano e ci facevano fuori tutti. I miei compagni subito si appostarono con quel po’ che avevano ancora, pronti a combattere come potevano.
Di punto in bianco, tutto cessò. E di lì a poco sentimmo sfrascare il bosco e vedemmo arrivare una pattuglia dei nostri.
Erano andati a fare un giro di perlustrazione su quelle mulattiere lì nei dintorni, quando, in una curva, si scontrarono con una pattuglia tedesca. Ma loro furono più svelti e fecero fuori tutti.
Noi, ignari in quel canalone, avevamo preso un bello spavento, nel sentire tutti quegli spari.
Sempre quella sera del 29 settembre, mi si avvicinò il comandante e mi disse: abbiamo deciso che tutti i feriti li facciamo passare di là dal fronte (che era a Lagaro di Castiglione dei Pepoli, non molto lontano da lì), perché non sappiamo più come fare, che non abbiamo più le case dove poterci appoggiare, per mangiare e tutto il resto.
Io gli risposi che non me la sentivo di passare il fronte perché ero certo di non averne la forza. Per passare il fronte bisogna essere svelti, bisogna correre per attraversare le 2 linee: i Tedeschi qua e gli Alleati di là.
Lui capì che effettivamente sarebbe stato impossibile per me, ma molti, quelli feriti lievi, passarono il fronte e furono poi ricoverati a Firenze, nell’ospedale militare. Così io tornai indietro insieme ai miei amici e compagni di Lama di Reno, un gruppo di una ventina. Pian piano arrivammo su nei monti della Lama, dove quei ragazzi avevano ricavato dei piccoli rifugi nella montagna. Ci si poteva stare al massimo in quattro in ognuno. Adesso non ci saranno più quei rifugi. Saranno crollati. Ci si andava passando dai Faiè, son quelle case lassù che si vedono dalla strada. Lì attorno ci sono i poderi di Brolo, Campo Fedele e la Casetta.
Quindi ci distribuimmo in questi rifugi. I ragazzi della Lama avevano le famiglie giù in paese, così riuscivano a racimolare qualcosa da mangiare.
E ricominciò a piovere e piovere. Io avevo sempre quella coperta, che me l’asciugai addosso.
Era il 30 settembre 1944.
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[Prologo] [1-In guerra] [2-Nella Todt] [3-Nei partigiani] [4-Da ferito] [5-Sfollati e deportati] [6-A Bologna] [7-Da Ponte Ronca al carcere] [8-La Liberazione] [9-Il Dopoguerra]
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 3
NEI PARTIGIANI
Verso la fine di aprile del ‘44, cominciammo a metterci in contatto con il movimento partigiano.
Il primo contatto fu un certo Gino Coralli della Fontana. A sua volta lui era già in contatto con gente del movimento partigiano. Ci parlava del movimento, di andar via, di andar nel bosco, ecc.
Il nostro riferimento era Ezio Beccari, detto “al Ciôd” (il Chiodo).
E poi ci fu l’incontro con Guido Cremonini.
Ci conoscevamo fin da ragazzi, lui era più grande di me, perché era del ‘21. Mi disse: oh se hai intenzione di partire, io ho il mezzo per imbarcarti.
E fu così che partii anch’io, insieme ad un gruppo di ragazzi, dei quali alcuni erano di quelli che erano stati con me nella Todt, altri che erano restati a casa, mezzo nascosti.
Il nostro distretto partigiano era in località Ganzole, alla Torricella - una casetta con un fienile – dove abitava un vecchio antifascista, Rossi Ettore, che ci ospitò dentro la stalla. Allora una mattina andai lì, dove ci radunammo in un grande branco, di circa un centinaio di persone.
La sera, naturalmente dopo il coprifuoco, partimmo tutti. Passammo la passerella di Vizzano, attraversammo la Porrettana e poi su che arrivammo alla Colombara, sopra alla collina a destra, per andare verso Monte San Giovanni. Là sopra c’era una cascina da contadini, dove dormimmo un poco, per poi ripartire la sera seguente, perché viaggiavamo solo con il buio.
Eravamo condotti da una guida che ci doveva portare a Montefiorino, dove c’era la Repubblica occupata dai partigiani e lì non entravano i Tedeschi.
In quella zona gli Americani e gli Inglesi avevano fatto i lanci, con il paracadute, di grandi bidoni contenenti armi, munizioni, ma anche viveri, vestiario e medicine. I partigiani, a seguito di contatti radio, facevano tre fuochi in una zona abbastanza pianeggiante, così gli aerei, arrivando di notte, potevano individuare la zona dove fare i lanci.
Viaggiavamo a piedi in fila indiana tutta la notte, senza alcuna luce, sempre per sentieri attraverso le montagne, condotti da guide che dovevano conoscere bene le strade.
Una guida ci portava in un certo punto e poi da lì un’altra le dava il cambio. Comunque, dopo alcune notti così, ci accorgemmo che non si procedeva. Sembrava che girassimo sempre attorno allo stesso punto.
Allora cominciammo ad innervosirci con la guida, lasciandoci sfuggire anche frasi poco simpatiche.
Quindi decidemmo di viaggiare di giorno. Per vedere se riuscivamo a fare più strada. Mangiavamo quello che potevamo, ci fermavamo presso i diversi contadini che trovavamo lungo il percorso, distribuendoci tra le case vicine. Ricordo queste donne, poverette, che facevano delle grandi infornate di pane, che poi noi mangiavamo ancora rovente, accompagnato da piccoli pezzi di pancetta.
Quando fummo nei pressi di Zocca, ci accingemmo ad attraversare la strada principale, azione molto rischiosa, se fatta di giorno. Siamo nel bel mezzo dell’attraversata, con gli uomini un po’ di qua e un po’ di là dalla strada e sentiamo arrivare una camionetta, che comincia a suonare forte con una campana. E noi, con il cuore in gola: i Tudesc (i Tedeschi)!
Era giorno ed eravamo disarmati: appena due o tre fucili per un centinaio di uomini. Io riuscii ad attraversare la strada, ma una parte di noi era rimasta dall’altra parte.
Ci fecero una ”sinfonia”, ma una fàta sinfunî (una sinfonia tanto grande): trrr, trrr! Fu terribile. Ci sembrò che ci scaricassero addosso tutte le armi!
Ma nessuno di noi rimase colpito.
Certo, i Tedeschi si erano accorti che c’erano dei giovani, ma non sapevano che stavamo andando a Montefiorino e non sapevano che eravamo disarmati. Forse avevano sparato in aria a casaccio.
Quando se ne furono andati, il resto del gruppo potè finalmente attraversare la strada per riunirsi agli altri.
Però, in seguito al quel fatto lì, i miei compagni cominciarono a dire: vuoi dire che la guida non sapesse che quello era un brutto posto per passare? Infatti, per attraversare la strada nella nostra situazione, bisognava essere almeno in un rettilineo, per poter vedere se arrivava qualcuno, mentre invece lì eravamo in curva. Cominciammo anche a minacciare di ucciderlo. Tanto che lò al taié la làza, al sgumbré (lui tagliò la corda e se ne andò via). E così perdemmo la guida.
Senza guida chi sapeva andare a Montefiorino? Allora ci fu lo sbandamento e il gruppo si divise: una parte tentò comunque di raggiungere Montefiorino e, non so come, sapemmo poi che ci riuscirono. Si aggregarono ad un altro gruppo partigiano che avevamo incontrato e che accettava solo persone armate, così presero solo quelli con il moschetto.
Allora noi di Sasso, in un gruppetto di una ventina, tornammo indietro.
Io tornai a casa mia, però dovevo rimanere nascosto.
Di notte dormivo nella mia stanza, però la mattina presto prendevo un panno sotto il braccio, un libro da leggere, passavo il fiume e poi su per il sentiero che andava só a Mòunbêc (sul monte Baco, tra Sasso e Marzabotto).
Guido Cremonini, il vice-Comandante |
Un bel giorno, ero, come al solito, steso sul panno, accanto al sentiero e mi leggevo un librino. Sento parlare: guèrda chi i’è (guarda chi c’è)!
Erano proprio Guido Cremonini con Giorgio Gardini, che erano stati giù alla Barleda, podere ai piedi di Monte Baco, a prendere dell’acqua fresca con delle borracce, da portare su, dove c’era la loro squadra di venticinque partigiani.
Da Campiuno di Badolo, nei pressi di Monte Adone, si erano spostati lì sul cocuzzolo di Monte Baco.
Sorpresi, i miei vecchi compagni partigiani, mi chiesero: come mai sei qui? Non dovevi essere a Montefiorino? Raccontai tutta la storia e finii col chiedere di andare con loro.
Guido mi rispose che non sapeva cosa dire, perché il capo non era lui. Allora il capo era Bruno Bregolini. Però ritenne che la cosa si poteva fare.
Così venni subito ingaggiato. Mi dissero: domattina presto, quando lasci casa tua, passa da Paganino, dove troverai Peppino Cedrati - faceva il fornaio – che ti consegnerà un sacco di pane, che tu dovrai portare qui sul Monte Baco.
Accettai subito l’incarico, anche se con un po’ di preoccupazione per il carico da portare, perché, sebbene avessi poco nello zaino, dovevo pur sempre trasportare anche una coperta pesante, perché la notte faceva ancora freddo.
Peppino il fornaio mi diede il sacco del pane, che era ancora bollente. Mi metto il sacco in spalla e poi vado giù in fondo al fiume Reno, passo il fiume e comincio a salire. La salita era molto ripida e arrivai sulla vetta del monte, che ero fradicio di sudore.
Inoltre durante il giorno faceva già caldo, perché eravamo nei primi di giugno del ‘44.
Ricordo che mangiammo veramente di gusto. I ragazzi lassù avevano un po’ di formaggio che avevano trovato da qualche contadino, o forse proprietario terriero, perché gli approvvigionamenti allora cercavamo di andarli a fare da qualche signorotto della zona.
Anche se qualcuno a volte recalcitrava un poco, comunque in genere la gente del luogo era molto disponibile verso i partigiani e non solo quando si trovavano di fronte dei ragazzi armati di fucile.
D’altronde, se anche in qualche raro caso, chi ci ospitava avesse voluto avvisare i Tedeschi, sentivamo di non correre alcun rischio, perché non ci fermavamo mai nello stesso posto e nessuno sapeva dove trovarci.
Per esempio, quando eravamo sopra il Monte Baco, il “colpo economico”, cioè il rifornimento di cibo ed indumenti, lo facevamo a Lama di Reno, dove nessuno sapeva dove stavamo.
Rimanemmo circa un mese lì sul Monte Baco e poi ci recammo sul Monte Adone, dove erano già stati in precedenza i miei amici, nella casa Campiuno, abitata allora dalla famiglia di Eugenio Stefanelli, partigiano come noi.
Di giorno stavamo nel bosco e la notte, se faceva brutto tempo, dormivamo in una grotta. In quella stessa grotta, per alcuni anni dopo la guerra, siccome la casa era crollata, vissero i componenti della famiglia che successivamente si stabilì in quel podere.
Qui avvenne un fatto notevole.
Una squadriglia di apparecchi alleati attraversò lo spazio aereo tra Monzuno e Cà di Bocchino, dove c’era una batteria antiaerea tedesca, che colpì un caccia con pilota e due militari.
Il pilota ordinò ai due di buttarsi con il paracadute, per poter proseguire alleggerito nel peso. Un proiettile colpì uno dei due paracadutisti, che quindi precipitò a candela, sfracellandosi al suolo. L’altro, invece, riuscì ad atterrare in un boschetto vicino, nei pressi di Monterumici.
Guido Cremonini con un altro compagno partigiano di nome Dario, per caso, si trovarono lì nei paraggi.
Erano andati in quella zona per contrattare un vitello e videro tutto, sentirono sparare, videro aprirsi il paracadute, videro tutta la scena e si avvicinarono per soccorrere il militare alleato.
Era Bob, un Sudafricano bianco. Aveva delle schegge conficcate nelle gambe, era messo male.
Allora lo portarono nel bosco fitto, e gli dissero: tu rimanere qui. Gli fecero capire, in qualche maniera, perché lui non parlava per niente l’italiano: noi questa sera ti veniamo a prendere.
Ma di lì a poco arrivò una pattuglia tedesca, perché avevano visto che l’aviatore era atterrato lì.
I due compagni videro dal bosco i Tedeschi avvicinarsi alla casa colonica del podere e chiedere all’azdàura (reggitrice) se l’aveva visto e lei: sì sì l’ho visto, ma è andato via.
Loro cercarono e cercarono inutilmente, perché nel frattempo Guido e Dario l’avevano nascosto tanto bene in mezzo al bosco, che non riuscirono a scovarlo.
I due allora tornarono da noi alla base, ci raccontarono il fatto, che erano scappati via in fretta, quando videro la pattuglia dei tedeschi armati di mitra, che insistevano nella ricerca. Bob lo avrebbero fatto prigioniero, ma i partigiani li ammazzavano!
La sera tornammo là a prenderlo. Era ancora nascosto dove l’avevano lasciato. Mi ricordo che andammo con un paio di buoi che trainavano una slitta, che in montagna usavano molto le slitte, anziché i carri o i birocci.
Lo portammo nella casa padronale del podere Vallenera di Badolo e chiamammo su il dottore a curare le ferite, che si erano già un po’ infettate.
Il medico era Gino Nucci, fratello di quel Pino Nucci, che divenne il comandante della brigata Santa Justa della zona di Medelana e Rasiglio.
Gino era il dottore di condotta di Sasso e collaborava con i partigiani, quando c’erano dei feriti, era lui che li andava a curare.
Bob, una volta guarito, non volle restare con noi, ma volle passare il fronte per raggiungere le forze alleate.
Dopo qualche tempo Bregolini, il nostro comandante, andò ad un incontro nella zona di Pianoro, durante il quale si parlò della costituzione della 62esima Brigata Garibaldi.
Alcuni giorni dopo, già in estate inoltrata, fummo raggiunti da una squadra di ragazzi della Lama di Reno. C’era anche Antonio Rossi che ci raccontò di essere stato a Montepastore, dove aveva incontrato il Lupo (Musolesi).
Così una notte partimmo tutti assieme per andare a formare una brigata dalle parti di Monterenzio ai piedi del Monte delle Formiche, nella vallata del torrente Zena.
Là eravamo disseminati in vari gruppi nelle case coloniche della zona, dove dormivamo nei fienili.
Purtroppo, nel giro di pochi giorni, cominciarono ad arrivare in zona le Brigate Nere.
I Repubblichini arrivarono fino in fondo al torrente Zena e cominciarono a sparare con le mitraglie. E noi eravamo là pronti ad aspettarli.
Ma non salirono mai da noi.
Fecero solo un gran fracasso giù in fondo, senza riuscire a venir su, perché se si fossero avvicinati, noi li avremmo visti e colpiti facilmente.
Là dove eravamo accampati, avevamo un somarello che usavamo per andare a prendere la carne e il pane alla sede del Comando partigiano, distante alcuni chilometri. Ci turnavamo in questo compito e quando toccò a me dissi: io non la conosco mica la strada.
Tu non ci pensare, mi risposero i compagni, salta a cavallo del somarello e ti porta lui.
Allora io andai giù con ‘sto somarello: com’era bravo! Per dei sentieri tortuosi! Sopra a dei burroni!
Mi portò laggiù, mi diedero la razione di viveri che mi dovevano, la caricai sul somaro e, naturalmente, al ritorno io andai a piedi, per non sovraccaricare la povera bestia.
Ad un certo punto, quando siamo su un’altura, a metà strada fra il luogo del Comando e la casa dove eravamo alloggiati, comincio a sentire sparare raffiche in continuazione: erano ancora i fascisti che volevano venire su a stanarci.
Fu un’attraversata poco simpatica, perché tra l’altro io avevo soltanto una pistola. E il somarello. Con il quale mi feci scudo, nascondendomi dietro il suo fianco! Pensavo: mi dispiace per lui, però…
Anche quella volta i fascisti arrivarono solo fino a Zena, da dove sparavano su a casaccio e non ebbero il coraggio di salire.
E il somaro non si spaventò. Era buono oltre che bravo!
A volte era buffo. Quando arrivava vicino alla stalla, accelerava il passo, perché era smanioso di entrare e, se trovava la porta aperta, si infilava dentro di volata.
Per fortuna a me non capitò mai, ma al povero Taddeo Zaccaria sì. Quando toccò a lui andare a fare la spesa, arrivò che c’era la porta aperta, il somaro partì, allora lui svelto afferrò l’architrave della stalla e rimase lì appeso, con le gambe a penzoloni e il somaro che correva dentro!
Facevamo dei turni di notte di quattro ore di guardia. Era tremendo il turno da mezzanotte alle 4: non si riusciva a stare svegli, ma bisognava. Allora io mi alzavo in piedi, mi muovevo. Eravamo sempre in due, anche se, mentre uno rimaneva nel punto assegnato, l’altro e un componente di un’altra squadra, facevano una pattuglia che andava avanti.
Comunque rimanemmo poco là a Zena, forse una ventina di giorni, perché era una zona che non ci convinceva.
Quell’episodio dei fascisti che ci avevano sparato contro era stato troppo, pure solo per spaventarci.
Così, ad un certo punto, si era in agosto, decidemmo di tornare sul Monte Adone, con la nostra squadra di venticinque, composta dal gruppo di Sasso più una parte di quello della Lama. Era la squadra comandata da Bruno Bregolini e il vice comandante era praticamente Guido Cremonini.
Gli altri restarono lì a Zena, dove, successivamente, insieme ai gruppi che venivano dalla città di Bologna, confluirono nella 62 esima Garibaldi - comandata da Mariano - che si trasferì poi ai Casoni di Romagna.
Ci mettemmo in cammino, sempre attraverso i boschi.
Quando arrivammo a Livergnano, proprio dove son nato io, in località Ospitale, c’è una piccola vallata e lì dovevamo uscire dalla macchia per attraversare la strada della Futa, che era un poco rialzata rispetto al terreno circostante. Dopo saremmo arrivati giù in fondo al Savena per poi montare verso Brento e sul monte Adone.
Era notte. Ma uscire dalla macchia è sempre un rischio.
E c’era proprio una colonna militare tedesca che transitava, così noi cercammo di passare tra un camion e l’altro per attraversare.
Ma ci videro e incominciarono a sparare, e noi rispondemmo al fuoco! Da una parte e dall’altra della strada, ci fu una grande sparatoria.
Anche quella volta il nostro gruppo ne uscì indenne.
Quando potemmo passare, raggiungemmo finalmente Monte Adone.
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[Prologo] [1-In guerra] [2-Nella Todt] [3-Nei partigiani] [4-Da ferito] [5-Sfollati e deportati] [6-A Bologna] [7-Da Ponte Ronca al carcere] [8-La Liberazione] [9-Il Dopoguerra]
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 2
NELLA TODT
Dopo la breve esperienza da militare, in cui la parte più avventurosa fu quella del ritorno, il giovane Martino non poté certo adagiarsi ad una vita tranquilla. Tutto doveva ancora succedere. E il suo racconto continua incalzante.
Io ero arrivato a casa, ma i Tedeschi erano un grosso problema perché erano già arrivati dappertutto e bisognava stare molto in guardia.
Andavano a cercare i giovani per portarli via, dove avevano bisogno per lavorare.
Io stavo sempre molto attento e non andavo certo tranquillamente per strada.
Inoltre, a seguito della costituzione della Repubblica di Salò, eravamo ricercati anche dai fascisti, che ci volevano inquadrare nel nuovo Esercito Repubblichino.
Alle soglie dell’inverno, quel Pierino che era sfollato dai Comelli di Villa Sanuti, seppe della Todt, un’organizzazione paramilitare tedesca che reclutava i giovani, la gente valida, per lavorare nelle fortificazioni della Linea Gotica. Facevano delle grandi fosse anticarro, trincee, minavano i campi.
Allora quel giovane mi disse: mi hanno richiamato nei militari, ma io non voglio andare. C’è la possibilità di andare a lavorare nella Todt, qui nei paraggi, così ci danno il documento, con il quale non ci può far niente nessuno.
Così entrambi andammo proprio lì vicino, a Sperticano di Marzabotto, dove c’era un impresario, certo Lenzi, che aveva il compito, d’accordo con i Tedeschi naturalmente, di reclutare i giovani e di mandarli su alla Futa, dove stavano lavorando per la Linea Gotica. Una parte di noi (tra cui anch’io) venne mandata a Montecarelli alla Futa e un’altra parte a Baragazza, perché la Linea Gotica passava da lì.
I giovani che erano scappati dai militari erano praticamente tutti impiegati lì.
Perché non sapevamo ancora niente del movimento partigiano, inoltre si avvicinava l’inverno e non avremmo potuto restare alla macchia.
Lassù, per dormire, ci avevano distribuito presso due case coloniche, una a poche centinaia di metri dall’altra. Erano costruite da poco e ancora disabitate, così noi fummo ricoverati lì, dove c’erano diverse stanze, da basso facevano la cucina e al piano di sopra c’erano le nostre camere da letto.
Lì c’erano tutti gli attrezzi che servivano: picconi, zappe, badili ecc. e lavoravamo in quei canaloni, che erano le grandi fosse anticarro.
Noi lavoravamo sodo, ma non ci ammazzavamo di fatica.
Loro non erano dei negrieri. Inoltre ci pagavano, anche se molto meno degli operai che lavoravano in officina.
I Tedeschi arrivavano lì qualche volta, ma noi eravamo comandati da degli Italiani. C’erano degli assistenti italiani, che a loro volta avevano dei tecnici tedeschi che tracciavano le linee da realizzare.
Ma c’era sempre il rischio che ad un certo momento ci caricassero su degli automezzi e ci portassero in Germania. C’era sempre questo terrore. Tanto è vero che io e un gruppo di miei amici alla sera non dormivamo più lì sul luogo di lavoro, ma andavamo in una casa disabitata più lontano. Prendevamo con noi una coperta e andavamo a dormire là e la mattina tornavamo lì per lavorare.
Ogni quindici giorni, di sabato, tornavamo a casa in permesso e il lunedì bisognava essere di nuovo lassù.
Durante questi permessi passavamo gran parte del tempo in viaggio. Andavamo a piedi da Montecarelli a Pian del Voglio.
Impiegavamo tre, quattro ore! A Pian del Voglio c’era la corriera che ci portava alla stazione di Sasso, per poi proseguire per Bologna.
Una volta arrivammo a Pian del Voglio la sera sul tardi, entrammo in un’osteria del luogo e lì trovammo Guercioli, il bigliettaio della corriera. Gli chiedemmo, come eravamo soliti fare, a che ora saremmo partiti l’indomani mattina: Guercioli, allora domattina quando si parte? E lui: domattina non si parte. E perché? Perché abbiamo il motore in panne.
Faceva ancora molto freddo. Ma da Pian del Voglio raggiungemmo ugualmente Rioveggio a piedi, tanta era la voglia di tornare a casa. Quando fummo a Rioveggio, avemmo la fortuna di imbatterci in un camioncino, óun di chi camiunzéin cinéin (uno di quelli piccoli).
Martino e i compagni della Todt, durante un viaggio di permesso. Notare le valigie di cartone legate con lo spago. In ordine da sinistra a destra: |
Eravamo in quattro, forse cinque, ci diede il passaggio e ci portò fino alla stazione di Sasso.
Fu proprio durante uno di questi permessi che un giorno arrivò lì a casa mia un brigatista della Brigata Nera.
Era uno della Fontana, in borghese e disse: io ho avuto ordine dal comando di venire a casa, vestirti in divisa, prelevarti e portarti a Sasso, perché tu risulti renitente alla leva. Allora gli dissi: va bene io vengo a Sasso, ma non sono renitente alla leva, perché ho un documento che dimostra che lavoro per la Todt.
Detto e fatto. Andai a Sasso e mi presentai al comando della Brigata, che si trovava dove ora c’è la biblioteca comunale: a i’éran dal fati fâz là dàintar (c’erano certe facce là dentro)!
Dissi: guardate che io sono in regola. E mostrai il documento della Todt.
Mi risposero: va bàin (va bene). La faccenda era stata chiarita.
Il capo era il capostazione di Sasso. Era il federale ed era il capo dei fascisti della repubblica di Salò.
L’atmosfera diventava sempre più scottante, con gli Italiani fascisti da una parte e i Tedeschi dall’altra.
Poi, pian piano, qualcuno cominciò ad indirizzarci, così quando venne la primavera scappammo quasi tutti da lassù.
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 1
IN GUERRA
Il racconto di Martino inizia con l’entrata in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940.
Lui, ragazzino di 16 anni, lavorava la terra con suo padre, colono presso il podere di Villa Sanuti, alla Fontana di Sasso Marconi.
I fascisti avevano convocato “un’ adunata”, in piazza a Sasso e tutti dovettero andare a sentire dall’altoparlante le parole del Duce che annunciava con enfasi di aver già presentato la dichiarazione di guerra a Vittorio Emanuele III, re d’Italia.
Io non è che avessi una preparazione per poter dare dei giudizi. Avevo fatto fino alla 5a elementare e poi avevo lavorato lì nell’ambito familiare, dove non c’erano grandi esperti che mi potessero spiegare le cose.
L’unico che mi parlava contro la guerra era il nostro vicino, l’ortolano.
L’ortolano Pavoni abitava, con la famiglia, in una porzione della casa colonica e teneva un orto lì dove c’era la risorsa dell’acqua, che arrivava per caduta attraverso un cunicolo, da una sorgente, oggi dispersa, a monte della via Porrettana.
Pavoni l’ortolano aveva fatto la guerra del ‘15-‘18. L’aveva fatta tutta, poveretto! Quando scoppiò la guerra disse subito: che brutta cosa! Lui sapeva cosa c’era di nuovo. Raccontava degli episodi che gli erano capitati. Come quello di quando, da artigliere, era proprio sul Carso, dove c’era il fronte.
Siccome era addetto ai cannoni, c’era un soldatino, più giovane di lui, che, quando sparava il cannone, veniva preso da tremori, che dopo non era più lui: era rimasto traumatizzato e aveva come degli attacchi epilettici.
Il padre di Martino invece non l’aveva fatta veramente la guerra, perché alla visita di leva fu riformato, in quanto aveva un occhio che ci vedeva poco. Però quando scoppiò la guerra nel 1915, andarono a prelevare anche i riformati per verificare di nuovo le loro condizioni, per questo lui fu richiamato e lo mandarono a Bergamo.
Lì avevano formato un corpo bandistico militare dove lui suonava il bombardino, un ottone simile alla tuba.
Quindi se la cavò meglio di tanti altri, perché il suo compito era quello di accompagnare, con il corpo bandistico, i militari dalle caserme al treno che portava su verso il fronte. Comunque anche se non fu un combattente vero e proprio, restò via tutto il periodo della guerra, lasciando a casa la moglie e le prime due figliolette.
Io seguivo gli avvenimenti, avendo ancora in testa le parole della maestra elementare, fascista convinta. Una brava maestra, che faceva anche ripetizione gratis ai suoi allievi più in difficoltà.
Diceva sempre a noi scolari, che se l’Italia dichiara guerra all’Inghilterra, mi metto i pantaloni e vado a combattere anch’io.
Diceva che al Tavolo della Pace, quando finì la guerra del ’15–‘18, all’Italia toccarono poche briciole. Per questo ce l’aveva in particolar modo con gli Inglesi, che avevano partecipato a quella guerra con i Francesi e anche con gli Americani.
Ci aveva inculcato l’idea di vincere la guerra, così io, anche se non parlavo, dentro di me pensavo che se si vinceva la guerra si andava a star meglio.
Con la guerra d’Africa, l’Italia conquistò l’impero, tanto è vero che il Re diventò Imperatore, dicevano saremmo diventati tutti ricchi, perché l’Africa aveva tante risorse! Montagne d’oro, dicevano. Invézi a i gn’éra gnénta (invece non c’era niente)!
Allora dovevamo portare la divisa dei giovani fascisti.
E anche negli anni successivi alla scuola, ero chiamato, il sabato pomeriggio, in centro a Sasso Marconi, con gli altri giovani a fare il pre-militare. Lì c’erano gli istruttori che ci insegnavano a marciare e a comunicare con l’alfabeto Morse.
Ricordo bene il giorno dell’esame, con la bandiera “lampo di colore” (punto e linea), per la trasmissione dei segnali e che a me fecero trasmettere la parola “firenze”.
Gianna, cinque anni dopo Martino, frequentò la scuola elementare con la stessa maestra e l’alfabeto Morse glielo insegnò lei.
Quando scoppiò la guerra nel ’39, anche lei residente con la famiglia alla Fontana, aveva dieci anni e faceva la quinta elementare.
C’era l’autarchia e bisognava risparmiare la carta dei quaderni e allora tutti a scrivere fitto fitto che guai a lasciare un posticino bianco.
La maestra ci insegnò come indossare le maschere antigas, anche se, a quell’età, noi non capivano bene cosa significasse.
E poi dovevamo portare il ferro, il rame, la carta e gli stracci a scuola. Perché ci dicevano che, per la guerra, serviva tutto.
Così tutti noi scolari andavamo, con dei sacchettini, a raccogliere i pezzetti di ferro per strada e anche la carta. Facevamo a gara a portare tutto nei mucchi, là nel cortile della scuola.
Le spose dovevano consegnare la loro fede nuziale in cambio di una di ferro, perché anche l’oro serviva alla patria. Infatti, per andare in Abissinia bisognava passare dal canale di Suez, controllato dagli Inglesi, che esigevano il pagamento del pedaggio in oro. Il cibo cominciava a scarseggiare. Ad un certo momento dissero: attenti che adesso danno i bollini. Con quelli andavamo a prendere due etti di pane al giorno e allora noi, che eravamo già in cinque in famiglia, tutte le mattine andavamo a comprare questa pagnottina.
Ricordo che era un pane tanto pesante! L’andavamo a comprare appena cotto: era bollente e dovevamo farlo bastare mattino, mezzogiorno e sera. A csé i n magnévan gniénta incióun (così nessuno mangiava).
Oltre al pane davano un po’ di riso, un etto di pasta… davano la razione, ecco! Io dovevo accudire il mio fratellino piccolo, Giulio.
Era il periodo in cui ogni tanto chiamavano mia madre a lavorare, a fare qualche giornata prima per raccogliere le marasche e poi a raccogliere l’uva.
Poverino il mio fratellino! Finché la mamma ne aveva, prendeva il suo latte, poi dopo non aveva niente da mangiare.
Mia mamma mi diceva: dai mò cûs mò un pô ad rîs par (cuoci un poco di riso per) Giulio a mezzogiorno. Allora io mettevo in un tegamino appena un po’ d’acqua, che dicevo: tanto c’è così poco riso. Cercavo di cuocerne una manciatina. E l’acqua si asciugava subito, perché non ne mettevo abbastanza.
Mia mamma era stata abituata fin da piccola ad arrangiarsi e pensava che una ‘donna’, all’età di dieci anni, dovesse già capire le cose… ma il riso era sempre crudo e il piccolo non riusciva mai a mangiarlo! Io non so come ha fatto a campare!
Mio padre lavorava a Sasso Marconi. Veniva a casa a mezzogiorno ed io dovevo cuocere da mangiare anche per lui. Accudivo il bambino fuori nel cortile e poi ad un certo momento, senza sapere che ora era, andavo in casa, accendevo il fuoco e poi mettevo su la calderina, solo che, a volte, quando mio padre arrivava, la minestra non era ancora cotta. Devo riconoscere che mio padre fu sempre paziente, anche se aveva solo quell’oretta lì per mangiare e per ritornare subito al lavoro, poveretto!
All’età di tredici anni, era il 1942 e c’era la guerra, dico ai miei: adesso voglio andare a lavorare. Bain! Vût’andé a lavurèr (vuoi andare a lavorare)!? Sì, voglio farlo, per dare un aiuto in casa. Che non ce n’era mai abbastanza.
Una mia amica, che aveva lavorato all’Acqua Marcella (la fonte di acqua minerale a Borgonuovo di Pontecchio, nei pressi dell’Altopiano Marconi, aveva preso il nome dalla proprietaria Marcella Bettoni), aveva trovato un altro lavoro. Allora mi disse: se vuoi andare a vedere, può darsi che ti prendano.
Colsi la palla al balzo: presi la bicicletta in prestito da questa amica, che ne aveva una da donna, mentre in casa mia ce n’era una sola da uomo, per mio padre e poi andai là a chiedere se mi prendevano.
Eravamo in autunno e i quattordici anni li avrei avuti in gennaio e quindi non avevo ancora la carta d’identità.
Mi presero ugualmente. Ricordo che d’inverno a imbottigliare l’acqua, avevo le mani che non le sentivo dal gelo!
Però mi pagavano, anche se poco, perché sai, una cinazza così e poi anche le donne prendevano poco e i bambini prendevano anche meno.
Ma io dei soldi non ne ho mai visti! Non sapevo neanche come erano fatti i soldi, perché li mettevo tutti in casa e poi ancora non bastavano.
Al compimento dei quattordici anni, nel gennaio del ’43, mi fecero la carta d’identità, così poi mi assunsero da Giordani, alla fabbrica di carrozzine per bambini a Bologna, in via Nicolò dell’Arca, dove mi recavo ogni mattina con il treno, perché allora i treni viaggiavano ancora.
Poi, quando cominciarono i bombardamenti, Giordani trasferì una parte della produzione a Sasso Marconi, quindi gli operai che, come me, abitavano a Sasso, andarono lì a lavorare. Era alla casa del fabbro, in via Porrettana, dove ora c’è una banca. Noi facevamo i pedali per bicicletta, però noi cinazzi non sapevamo di preciso cos’altro si faceva, in quella fabbrica, perché in realtà, anche a Bologna, cominciarono a fare dei pezzi per gli aerei, per le bombe, per quelle cose lì, ma noi non lo sapevamo.
In quel periodo, molte fabbriche, spesso all’insaputa degli stessi dipendenti, avevano dedicato reparti alla produzione di pezzi destinati all’industria bellica.
Fu così anche per la cartiera della Lama di Reno, dove Nerina, una delle sorelle di Martino, lavorava come cuoca della mensa aziendale.
E, verso la fine del ’43, la cartiera venne bombardata. Ci furono tanti morti, tra i quali la Nerina.
Quando cominciarono a bombardare - continua Gianna – e suonava l’allarme, c’era un ragazzo che abitava con i genitori nell’appartamento sopra al reparto di Giordani, che noi con le macchine in funzione non sentivamo l’allarme, allora veniva dentro: c’è l’allarme! Allora noi tutti correvamo su per la cavedagna, fino ad un piccolo rifugio su per Pian della Botte, sopra a Villa Ferri.
Nel frattempo Martino continuava a lavorare i campi con il padre nel podere della Fontana.
Poi, all’età di diciotto anni, nei primi di agosto del 1943, fu chiamato di leva e fu assegnato al ventesimo Reggimento Artiglieria a Padova.
Ma presto venne l’8 settembre del ‘43 (il giorno dell’armistizio) e ci fu chi venne catturato dai tedeschi e spedito in Germania. Altri fuggirono.
Gianna ricorda che, quando i militari che erano scappati passavano davanti a casa sua, chi aveva qualcosa, gliene dava, un paio di braghe o altro indumento da civile.
Martino fu tra quelli che riuscirono a tornare a casa.
Quel giorno, il tenente disse ai militari: ragazzi, siete liberi di andare dove volete, anche a casa e cercate di andarvene alla svelta, perché i Tedeschi (con cui fino al giorno prima erano alleati), stanno arrivando in città.
Il ritorno di Martino non fu semplice. Tutt’altro.
Quando ci dissero che potevamo andarcene, io andai subito nel ripostiglio per vedere se trovavo il pacco dei miei vestiti da borghese, ma là c’era uno scompiglio tale! uno che tirava da una parte uno dall’altra, no questo non è mio, questo è tuo…insomma…io non fui furbo, perché avrei potuto prendere un vestito qualsiasi e poi andarmene in fretta, invece niente, quando vedemmo quella confusione io e un mio amico di Calderara scappammo via così come eravamo, vestiti da militare e con il fucile!
Quando fummo nei pressi della città di Padova, saltammo una rete metallica e andammo per i campi. Eravamo affamati, perché fu proprio nel momento in cui eravamo inquadrati per andare a prendere il rancio con la gavetta, che era arrivato il tenente per comunicarci che eravamo liberi di andarcene.
Così ci fermammo da un contadino. La famiglia ci accolse con calore: venite pure dentro ragazzi e ci diede una tazza di brodo con del pane. Facemmo una zuppa con questo brodo cl’éra tante bòun (che era tanto buono)! E poi ci dissero: cosa fate ragazzi, andate via armati? Cosa vi faranno i Tedeschi? Lasciate qui le armi e la divisa militare e noi cerchiamo qualcosa da vestirvi.
Io lasciai lì il moschetto e ricevetti un paio di braghe troppo corte e una camìsa tota sprasulà (camicia tutta sfilacciata). Ero tosato a zero perché li tosavano subito i militari. Ero andato via che avevo i capelli lunghi due dita, che li avevo allora i capelli e invece quando fui là in caserma il barbiere al taché a tusêr (cominciò a tosare)… Quindi si vedeva lontano un miglio che eravamo militari in fuga.
Andammo poi a piedi fino a Monselice, dove aspettammo un bel po’ il treno.
Verso le cinque di sera arrivò un treno che era lungo che non finiva più, con dei carri merci pieni di soldati che scappavano.
Montammo su questo treno, che a Ferrara si fermò. Eravamo stipati come le bestie. A Ferrara era già buio. Quando ci fermammo, io ero appoggiato alla spranga di ferro, collocata all’apertura del carro merci, e lì, proprio davanti a me c’era un gendarme tedesco con il fucile pronto!
Allora pensai: adesso ci rinchiudono, ci piombano il carro e poi ci mandano in Germania. Rimanemmo fermi un bel po’, per un tempo che forse mi sembrò anche più lungo, perché eravamo tutti molto tesi.
Invece ci lasciarono ripartire.
Evidentemente non catturavano tutti i treni, ma solo quelli che avevano la disponibilità per mandarli di là dal Brennero e noi fummo fortunati.
Quando fummo a S. Pietro in Casale, decidemmo di scendere dal treno. Perché avevamo paura ad arrivare fino a Bologna, che non ci aspettasse una retata.
Sempre con il mio amico di Calderara ci avviammo a piedi per andare a casa sua.
Ma la strada era lunga ed era già quasi notte, c’era il coprifuoco e allora andammo a dormire sul fienile da un contadino, al quale chiedemmo di svegliarci l’indomani mattina presto.
Ma quel mattino non avemmo bisogno della sveglia, perché non chiudemmo occhio in tutta la notte, per l’ansia di venire scoperti.
Così ci rimettemmo in marcia e, attraverso i campi, arrivammo finalmente a Calderara, a casa da questo mio amico, che era anche lui contadino. Poi, da lì in bicicletta, mi accompagnò a Casalecchio da una delle mie sorelle.
Dopo di che il mio amico ritornò a casa propria con le due biciclette, montando su l’una e portando a mano l’altra.
A questo punto io dovevo raggiungere casa mia, alla Fontana. Allora il marito di mia sorella mi prestò la sua bicicletta. Quando fui al passaggio a livello di Casalecchio, incontrai un giovane coetaneo, Pierino, che era sfollato nel palazzo di Villa Sanuti dei Comelli lì alla Fontana.
Lui aveva un tandem, erano in pochi ad averlo, con il quale stava andando verso Sasso da solo.
Martino! Mi chiamò. Ah! - gli risposi contento - aspetta che riporto la bicicletta a mia sorella e poi monto su con te.
Così facemmo ed arrivai finalmente a casa.
Avevo 18 anni e mezzo.
Mio padre aveva ancora il terreno da arare per la semina del grano, perché doveva aspettare un trattore a noleggio, dato che l’uomo che di solito veniva con il trattore non aveva più petrolio per far andare il motore.
Ricordo che conoscevamo una famiglia che abitava su a Verla, sopra a Case Mazzetti, e avevano anche loro un figlio della mia età, anche lui nei militari nello stesso periodo. Allora, prima del mio ritorno, dicevano a mio padre: eh! I nùstar ragâz i véinan mia a cà con l’ôt éd setàmbar (i nostri ragazzi non vengono mica a casa l’8 settembre)! Poveretti, vedevano tutti quei soldati che tornavano a casa, c’era del movimento… e loro ripetevano: i’én dû tante zòuvan, i’én dû quaión, a gn’é dóbi chi végnan a cà (sono tanto giovani e sprovveduti che non c’è dubbio che arrivino a casa).
Invece io arrivai a casa e all’altro ragazzo toccò di andare in Germania.
Come tanti altri. Come Evaristo Stanzani, lo zio della Gianna, che era a Padova con me, anche se in un’altra caserma. Lui scappa dalla caserma e quando è fuori trova il suo tenente, che gli chiede a bruciapelo: dove vai? Vado a casa! Ma scherzi? Vai a casa? Ma lo sai che ci mandano al carcere di Gaeta? Ci mandano sotto il tribunale militare, se per caso veniamo pescati! Allora Evaristo tornò in caserma. E si fece beccare dai Tedeschi che lo mandarono in Germania.
Questo dimostra che, in quel frangente, non c’erano direttive precise: ognuno faceva a modo suo.
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