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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 8
LA LIBERAZIONE
Il 20 aprile 1945, un giorno prima della Liberazione di Bologna, la madre di Fernando, tramite una conoscenza, riuscì a tirarci fuori dal carcere e riportarci nella casa sopra Ponte Ronca.
Ero là, quando ci fu la battaglia di Zola Predosa.
Ricordo che una notte cominciarono a sparare. I Tedeschi da una parte e gli Alleati dall’altra e noi in mezzo ai due fuochi.
Ci rifugiammo sotto una montagna di fascine di legna, dove avevano scavato un tunnel nel terreno. Era un rifugio ben poco affidabile. Poteva forse servire da paraschegge, ma se fosse arrivata una cannonata in pieno, sarebbe volato via tutto.
Eravamo tutti lì dentro con una famiglia di Ponte Ronca che si era unita a noi.
Ma io non mi sentivo affatto al sicuro dalle cannonate. Allora dissi al mio amico Fernando: per me qui facciamo la fine del topo. Meglio andare in casa, perché ci sono i muri, e se stiamo giù a pian terreno potremmo salvarci.
Probabilmente, chi aveva ricavato quel rifugio sotto il mucchio della legna, pensava che, a differenza della casa, che poteva essere presa facilmente di mira, questo poteva passare come magazzino della legna.
Il rifugio e la casa distavano tra loro circa cinquanta metri. Quando fummo a metà strada fra la catasta di legna e la casa, arrivò una cannonata proprio contro un albero vicino e fummo scaraventati tutti in terra, per lo spostamento d’aria. Io sbattei le ginocchia per terra, tanto violentemente che temetti di non potermi rialzare. Poi, arrancando, riuscii ad entrare in casa.
E per tutta la notte fu quella rumba lì, sempre cannonate da una parte e dall’altra.
Finalmente arrivò il mattino e con esso cessarono di sparare e arrivarono gli Alleati. Era il 21 aprile 1945.
Mi ricordo che i primi che ho visto io erano Marocchini.
Di loro le ragazze avevano paura, perché avevano sentito parlare di violenze sessuali.
Tanto è vero che nel film La Ciociara, la ragazza viene violentata dai Marocchini.
Anche se, tutto sommato, non credo che loro si comportassero diversamente da tutti gli eserciti da che mondo è mondo.
Comunque le ragazze, ce n’erano diverse lì dov’ero io, andarono subito a nascondersi.
Ma quando questa pattuglia arrivò, noi gli offrimmo da bere, ben lieti di vederli. Naturalmente non fecero niente di male.
Gli Americani avevano questa politica: mandavano avanti le truppe di colore e loro stavano un po’ coperti. Infatti verso sera del giorno dopo arrivarono proprio gli Americani, alcuni giovani vennero lì in casa, parlavano poco l’italiano, però qualche parola si intendeva.
Il giorno dopo andammo giù al paese di Ponte Ronca, dove ci fu detto dai capi partigiani di andare a Bologna.
Andammo con vari mezzi di fortuna, alcuni in bicicletta. C’era un vecchio camion che sembrava aver l’asma quando avviava il motore.
Insomma riuscimmo ad arrivare a Bologna, dove prendemmo parte alla sfilata dei partigiani. Partendo dalla periferia, entrammo in città, con tutta la gente che faceva i cordoni sui marciapiedi delle strade e applaudiva.
Festa della Liberazione a Bologna: il terzo in prima fila è Bruno Bregolini, il Comandante. In seconda fila a destra con la bandiera è Martino con i pantaloni alla paracadutista. |
A quel punto ci chiesero se intendevamo ritirarci completamente dall’attività partigiana o se volevamo aggregarci alle truppe alleate, per andare a portare a termine la guerra. Ed io, ormai che c’ero, fui uno di quelli che firmarono per andare.
Rimanemmo alcuni giorni lì in una caserma, finché i capi decisero di lasciare perdere, anche perché l’esercito tedesco era in rotta ormai e gli Alleati procedevano senza alcuna resistenza.
Quindi, venendo meno la necessità di aiuti da parte nostra, ci diedero il benestare per tornare alle proprie case.
E io tornai nella casa colonica sopra Ponte Ronca.
Il babbo, da parte sua, voleva tornare a casa propria con il suo biroccio e le due bestie.
Però nel frattempo era nata una vitellina, che mio padre voleva pure portare a casa, perché due bestie non sarebbero bastate e un’altra vitellina faceva comodo.
Però lui non sapeva come fare a portarla a casa.
Allora mi chiese se potevo aiutarlo, trovando qualche mezzo.
Intanto lui partì con sua moglie, il biroccio a due ruote e il suo carico di grano, che aveva comprato al mercato nero, un baule con pochissimi abiti, le mie sorelle di 10 e 16 anni, caricò tutti quanti, attaccò le bestie e andò.
Allora io, sempre insieme all’inseparabile Fernando, andai giù in paese , dove si era formato il Comitato di Liberazione Nazionale. Lì conoscevo dei ragazzi che erano stati in prigione con me e chiesi loro se mi potevano prestare un animale, un mulo o un cavallo, per portare della roba a casa a Sasso Marconi.
Mi risposero: sì senz’altro, tutti i cavalli che siamo riusciti a requisire ai Tedeschi, che li hanno abbandonati durante la ritirata, li abbiamo affidati a delle famiglie di contadini. Proprio vicino a voi c’è un tale di Sasso, che faceva il birocciaio, cui abbiamo assegnato un mulo. Andate là a nome nostro (credo che mi dessero anche una carta scritta), vi fate dare il carro con il mulo e poi glielo riportate.
Quando ci presentammo da quest’uomo, lui si oppose: ah ma questo mulo non si può usare, perché non è domato!
Allora io gli chiesi: voi perché l’avete preso allora? E lui alla fine crollò. Confessò di aver mentito per timore di non riaverlo indietro, visto che per lui era un mezzo di lavoro indispensabile.
Lo rassicurai e mi feci aiutare ad attaccarlo al carro, perché non l’avevo mai fatto prima, le bestie bovine sapevo come attaccarle al carro, con il giogo e tutti i finimenti, però dei cavalli non avevo nessuna esperienza.
Era un bel mulo grande e messo bene, anche buono ed obbediente. Caricammo la vitellina sul carro e la legammo perché non sbandasse, poi partimmo per via Montebrollo, fino a S. Lorenzo in Collina, per poi scendere sul fiume Lavino a Ponte Rivabella e poi su per l’Olivetta, fino a Mongardino.
Quando arrivammo alla Grotta di Mongardino c’era mio padre lì, poveretto, che mi aspettava. Si era preso dalla Fontana a piedi, per venirci incontro, per avvisarci che la strada era impraticabile.
Aveva tentato, senza sapere se ci avrebbe trovati.
Così dovemmo passare per i monti, perché per la strada giù a valle non si poteva transitare. C’erano continuamente le colonne degli Alleati.
Inoltre la strada sotto la Rupe non c’era più, l’avevano minata i Tedeschi.
Si poteva passare solo a piedi per un sentierino.
Gli Americani invece passavano per la ferrovia, da dove, con i loro validi mezzi, in poco tempo avevano sbaraccato via i binari. Andavano giù per via Fiaccacollo, seguivano la ferrovia e dalla Stazione prendevano via Setta (ora via Ponte Albano) e rientravano in Porrettana.
Noi invece salimmo fino alla scuola delle Lagune e scendemmo per via Ronchi. E’ una stradina tutta sconnessa che scende molto ripida.
Bene o male arrivammo alla casa della Fontana.
Era già sera.
La mia matrigna riuscì a farci qualcosa per cena, anche se non avevano quasi niente da mangiare e rimanemmo lì a dormire.
L’indomani mattina ripartimmo presto per andare a restituire il mulo con il carretto, dato che avevamo dato la nostra parola.
Tutto andò bene finché non ci trovammo su per la ripida salita della strada dei Ronchi, tra la Cà di S. Leo e Sant’Andrea.
Nonostante il carretto fosse scarico, il mulo non ce la faceva, poverino, veniva avanti un po’ e poi si fermava.
Allora cosa feci? Dissi a Fernando: tu resta qui e tieni il mulo, mentre io vado a vedere se a S. Andrea c’è qualcuno che ci può aiutare.
Là trovai per fortuna un contadino che conoscevo. Era Oreste Betti, che aveva una coppia di buoi. Gli chiesi se mi faceva il favore di venirmi a dare uno strappo con le sue bestie.
Lui fu molto disponibile e, senza chiedere nulla in cambio, venne lì, attaccò un cavo al carro e i suoi buoi riuscirono a tirar su carro e mulo.
Le salite che trovammo poi, per raggiungere la cima delle Lagune, erano tutte abbordabili, così arrivammo a destinazione, senza altri intoppi e potemmo mantenere la parola data all’assegnatario del mulo.
Anche ai contadini di Cadantone, su per via Rupe, che lavoravano la terra per i Comelli - gli stessi nostri padroni - il Comitato di Liberazione aveva assegnato un cavallo. Era un gran bel cavallo!
Il contadino di quel podere, un certo Collina Francesco, andando a lavorare nel campo, dopo la liberazione, inciampò in un ordigno, che esplose, rovinandogli un occhio.
Poiché lì da noi non c’era nessuno che potesse prestargli le cure necessarie, dovendo quindi recarsi all’ospedale a Bologna, mi chiese se lo potevo portare con quel suo cavallo e il biroccio a due ruote.
Nelle privazioni dell’immediato dopoguerra, era già molto poter disporre di finimenti di rimedio, tutti rattoppati, con aggiunte di legacci di materiali vari.
Bene, dissi io. Sistemammo quei finimenti, caricai Francesco sul biroccio e partimmo.
Quando fummo alla Fontana e passammo davanti a Villa Sanuti, c’era lì sulla strada ad aspettarci proprio il padrone, il signor Ciro Comelli, al sgnòur Ciro.
Disse: ne approfitto, Martino, per venire a Bologna anch’io, mi carichi?
So anc’ a mé (certamente)! E caricai pure lui.
Tutti e tre sul biroccio, trainati da quel bel cavallo abbandonato dai Tedeschi in fuga, lisci, lisci lungo la Porrettana, ormai sgombra dal traffico alleato, arrivammo al passaggio a livello di Casalecchio.
In quel punto il fondo stradale era particolarmente dissestato, con enormi buche, allora io scesi dal biroccio, prendendo il cavallo per la cavezza, per evitare le buche più profonde.
Ma non bastò. Ad uno strappone più forte, si lacerò il sottopancia del cavallo. Istantaneamente le stanghe volarono in aria, il biroccio si ribaltò all’indietro e con esso i suoi due occupanti: il padrone signor Ciro e il povero Francesco infortunato.
Io, che ero a terra, nel vedere tutte quelle gambe all’aria, con tutto il rispetto che portavo per il padrone e la pena che provavo per il contadino ferito, sul momento ci rimasi male, ma subito dopo mi venne da ridere, nel ripensare la scena che, nonostante tutto, aveva del comico!
Dovemmo poi metterci tutti e tre d’impegno per cercare di ripristinare in qualche modo quei poveri finimenti.
Finalmente riuscimmo a raggiungere Bologna. Dapprima scaricammo il signor Ciro, che doveva andare nella propria abitazione di via Frassinago, poi attraversammo tutto il centro della città, che almeno era priva di traffico, in quel periodo, per arrivare fino all’ospedale S. Orsola.
Ancora fino a poco tempo fa, finché è stato in vita, il povero Francesco Collina, quando ci incontravamo, immancabilmente mi ricordava l’episodio e finivamo entrambi in una sonora risata.
Il suo occhio si era salvato, ma aveva perso quasi tutta la vista, tanto è vero che prendeva una piccola pensione come invalido civile di guerra, perché era pur sempre stato un ordigno di guerra a ferirlo!
LINK AI CAPITOLI
[Prologo] [1-In guerra] [2-Nella Todt] [3-Nei partigiani] [4-Da ferito] [5-Sfollati e deportati] [6-A Bologna] [7-Da Ponte Ronca al carcere] [8-La Liberazione] [9-Il Dopoguerra]
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 7
DA PONTE RONCA AL CARCERE
Decisi di partire con Fernando, per Ponte Ronca di Zola Predosa. Visto che io avevo già recuperato le forze, andammo a piedi.
Era la fine di gennaio del ’45. Fu un inverno in cui venne una grande nevicata e c’era ancora la neve.
Fu in quei giorni che Attilio e Chicco (nonno e fratello della Gianna), trovarono lavoro a spalare la neve in Stazione a Bologna.
Tempo dopo, seppi che, all’indomani della mia partenza, suonarono alla porta di via Centotrecento e quando aprirono si trovarono davanti una pattuglia di Brigata Nera. Dissero: noi cerchiamo uno che sta qua! Uno che è stato nei partigiani. Risposero: qui non c’è nessuno. Allora i brigatisti andarono a frugare un po’ dappertutto, ma dovettero andarsene con un pugno di mosche.
Non seppi mai chi mi aveva tradito. La Nella aveva i suoi sospetti e forse anch’io. Ma non ho mai fatto nomi.
A Ponte Ronca trovai una grande casa colonica pronta ad ospitarmi. Era situata su per una stradina che andava verso S.Lorenzo in Collina. E lì ritrovai la mia famiglia. Non ci vedevamo dal maggio del ’44.
Olindo Righi, padre di Martino, durante la seconda guerra mondiale. |
I miei avevano portato lì un paio di mucche, le avevano trasferite lì con il biroccio, da Cà di Monari delle Lagune, dove erano sfollati dalla Fontana.
Non c’era molto anche lì da mangiare, però c’era il latte e facevano anche un po’ di formaggio.
Inoltre mio padre riuscì a trovare un paio di quintali di grano al mercato nero, lo fece macinare, così riuscimmo a fare un po’ di pane e un po’ di sfoglia.
Eravamo presso una famiglia che allora aveva dieci figli. Infatti l’ultimo si chiamava Decimo.
La figlia più grande a sua volta era sposata lì in casa e aveva già tre figli.
Si era poi aggiunta la mia famiglia di cinque membri.
A tavola quindi ci riunivamo in ventuno!
In febbraio io e Fernando cominciammo a cercare contatti con i partigiani della zona di Ponte Ronca.
Iniziammo a collaborare con loro, attaccando ai muri i manifesti del materiale di propaganda.
Nel frattempo aiutavo mio padre a zappare la vigna, dato che lui era soprattutto impegnato a governare il bestiame, tra cui le sue mucche e le bestie del contadino che ci ospitava.
Tutto filò liscio per un po’, poi qualcosa andò storto.
Nel paesino di Ponte Ronca, alcune ragazze si intendevano con i militari tedeschi.
Allora qualche stolto, forse per gelosia, iniziò a minacciare: quando sarà passata la burrasca, e arriveranno gli Alleati, voialtre vi toseremo tutte!
Avrebbe fatto meglio a tacere, visto che di lì a poco, per rivalsa, quelle ragazze cominciarono a far dei nomi ai Tedeschi.
Così, una notte, verso le due, ci piombarono in casa i militari tedeschi.
Vennero al piano di sopra e proruppero nella camera in cui dormivo, condividendo il letto con i molti cinni della casa chi spisaiévan tra lé da par tót (che pisciavano dappertutto).
Mi ricordo che, siccome non c’era la luce elettrica, avevano una di quelle torce meccaniche che funzionavano premendo una leva.
Mi puntarono la torcia negli occhi: krrr krrr. Ed io mi svegliai soprattutto per il rumore di questa raganella.
Per istinto, preso alla sprovvista, sbottai: cusa vût (cosa vuoi)? E lui: du partisan (tu partigiano)? E io: niente partisan.
Volle vedere i miei documenti, allora io presi fuori dai pantaloni il mio portafoglio, che conteneva poche lire e delle fotografie di alcune ragazze, vecchie fiamme, così per ricordo.
Cominciarono a stendere queste foto sopra al letto, esclamando: queste qui sono tutte staffette partigiane! Ed io protestai: no, sono mie amiche…
Niente da fare: dovetti alzarmi e con me anche Fernando.
Ci dovemmo vestire in fretta, poi ci portarono giù a Ponte Ronca.
Là ne trovammo almeno altri dieci come noi, belli vestiti e impacchettati: riconobbi subito il mio commissario politico e altri che conoscevo un po’ di vista, tutti quanti partigiani.
Ci caricarono tutti su un camion e ci portarono in S. Giovanni in Monte, dove allora c’erano le prigioni di Bologna.
Ricordo che, mentre eravamo sul camion per strada – si cominciava già a vedere la luce del giorno – raggiungemmo un omarello che andava a lavorare molto presto. Fermarono il camion e caricarono anche lui, incuranti delle sue proteste: mo mé ai ho d’andé a lavurèr (io devo andare a lavorare)!
Rimanemmo circa un mese nelle prigioni di S. Giovanni in Monte. Ci davano da mangiare della brodaglia da maiali. Stavamo nei sotterranei, tanto è vero che le porte erano nel soffitto. Eravamo in una sessantina in un camerone, con i buglioli in un angolo della stessa stanza.
Siccome il vitto che ci passavano era disgustoso, i familiari dei detenuti, pur nelle ristrettezze di quel periodo, mandavano qualche pacco con un po’ di cibo. Dicevamo: è arrivato un convoglio! E ci dividevamo sempre tra noi il contenuto.
In S. Giovanni in Monte, i Tedeschi erano alpini dell’esercito, quindi erano un po’ più umani. Ma ogni giorno prelevavano alcuni detenuti e li portavano in via S. Chiara, dove c’era un comando delle SS, che procedeva senza tregua agli interrogatori.
Ero terrorizzato, nell’attesa che un giorno o l’altro toccasse anche a me.
Vedevamo rientrare ragazzi più morti che vivi, per violenze subite durante quegli interrogatori!
Alcuni di loro erano stati sorpresi nel proprio letto con l’arma sotto il cuscino. Questi vennero torturati duramente per estorcere loro i nomi degli altri partigiani, dei comandanti.
Venne il giorno in cui toccò a me, con altri del nostro gruppo. Ma quella volta non fecero in tempo ad interrogarmi.
Altre due volte mi portarono davanti alle SS, senza interrogarmi ed ogni volta era uno spasimo. Pensavo sempre a quei ragazzi picchiati a sangue, che intanto erano spariti dalla circolazione. Sapemmo successivamente che erano stati portati via e ammazzati.
Quella volta era un gruppo grosso e mi interrogarono per ultimo.
Cominciarono col dire che ero un partigiano. No, no – cercai di difendermi - no, sono un profugo di Sasso Marconi, dove c’è il fronte.
Ad un certo punto, mi si avvicinò uno delle SS, grande e grosso, che mi mise una mano dietro la schiena e tuonò: dire verità! e io: stai tranquillo, che sto dicendo la verità!
Inaspettatamente mi credettero. E non mi toccarono.
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 6
A BOLOGNA
Intanto la Gianna, con la madre e i due fratelli e gli altri sfollati della Fontana, diretti a Bologna, si fermarono per la notte alla Profumeria di Casalecchio, dove allora c’era un contadino.
Ci fermammo tutti lì dentro la stalla. Mi ricordo che ci fecero un po’ di riso per cena, scondito, cotto con un po’ di acqua e basta.
Il mattino seguente ci riavviammo verso Bologna, senza sapere dove avremmo alloggiato.
Allora mia madre pensò di provare ad andare dalla zia Emma, sorella di mio padre, che abitava in via Centotrecento. E quelli che non avevano posto dove andare, andarono dentro alle caserme. Ci sono stati tanto tempo dentro a queste casermone.
Quando ci presentammo lì a casa della zia, lei poveretta ci accolse a braccia aperte e ci ospitò senza esitazione, anche se l’appartamento era molto piccolo e aveva problemi con il marito.
Inoltre era appena deceduta la figlioletta, a causa di un malattia contratta al nido, dove la zia aveva dovuto metterla, perché lavorava. Aveva un anno, proprio come il mio fratellino Giulio.
Purtroppo, la convivenza con il marito della zia, che soffriva di seri disturbi comportamentali, si rivelò insostenibile.
Resistemmo una settimana soltanto e poi andammo al Seminario di via dei Mille, dove ci avevano detto che c’erano delle camere.
Ci assegnarono una camera dove c’era una stufa e un fornellino per cucinare.
Dio che vita! Quando penso ai cessi, che non ci si poteva andare perché erano sempre pieni! C’era questo lungo corridoio con una decina di camere per lato e un solo cesso là in fondo. Sempre sporco perché dell’acqua non ce n’era mai abbastanza.
Siamo rimasti là diversi mesi, fino alla Liberazione.
Nel febbraio del ’45, Pietro, il padre di Gianna, era stato deportato da S. Silvestro ad Alfonsine, sempre per lavorare nella linea gotica.
Là si ammalò di nefrite.
Quando sua moglie, Alma, che era alloggiata nel Seminario a Bologna con il resto della famiglia, ne venne a conoscenza, partì subito per Alfonsine, percorrendo oltre cinquanta chilometri in bicicletta.
L’Alma si riportò a casa Pietro, gravemente malato, sulla bicicletta. Impiegarono due giorni per il ritorno e passarono la notte nella stalla di un contadino, che trovarono lungo la strada.
La malattia si protrasse per mesi, rendendo Pietro invalido al lavoro fin dopo la Liberazione.
Del resto, anche prima della guerra, quando era nel pieno delle forze, da socialista convinto, che aveva sempre rifiutato la tessera del fascio, faticava a trovare da lavorare per mantenere la famiglia.
Dopo aver bevuto di quel latte appena munto, Martino cominciò a star male, ad avere la febbre alta e la dissenteria e dopo di lui anche diversi altri, là a Prato del Miglio, ebbero gli stessi sintomi.
Fino a che, il 6 dicembre del ’44, il medico tedesco ci mandò all’ospedale.
Ci caricarono su un carretto trainato da un cavallo e ci portarono a Palazzo Rossi, dove c’era l’ospedale militare tedesco.
Mi ricordo che lì trovai una ragazza che abitava alla Fontana una volta e dopo si era trasferita a Palazzo Rossi e lavorava come inserviente in quell’ospedale. Quando mi vide mi riconobbe subito: sei qui anche te! adesso ti porto da mangiare.
Mi portò un piatto di maccheroni. Quando cominciai a mangiarli, ebbi una brutta sorpresa: erano dolci! All’usanza dei Tedeschi. Noi non avevamo neanche lo zucchero da mettere nel caffelatte e loro mangiavano i maccheroni dolci!
Provai a mangiare questi maccheroni, ma non andavano giù. Ne mangiai due o tre forchettate e poi basta.
In ospedale ci visitarono, poi ci caricarono dentro una vera e propria autoambulanza, anche se era una vecchia carretta a motore e ci portarono all’ospedale a Bologna.
Mi ricordo che prima ci portarono su all’Istituto Rizzoli, che naturalmente non era la giusta destinazione. Noi avevamo una forma di malattia infettiva, paratifo, che forse non era ancora stata diagnosticata, però i sintomi erano quelli del tifo.
Così ci portarono al S. Orsola, dove ci ricoverarono nel vecchio fabbricato dell’Isolamento.
Anche lì io avevo sempre la febbre alta.
Per le feste natalizie, vennero a trovarmi i miei amici e compagni Lino Lucchi, Arnaldo, Orlando De Maria e Gastone Gazzotti. Ricordo che mi portarono in regalo una bella ciambellina…che io purtroppo non potei mangiare a causa della malattia. E così se la mangiarono loro volentieri!
Ed ero, come gli altri, pieno di pidocchi, che mi giravano dappertutto in testa e sul corpo.
Ci fecero fare un gran bagno, perché lo sapevano che eravamo pieni, poi ci diedero una coperta e ci misero a letto nudi, perché i nostri indumenti li portarono a sterilizzare.
Il barbiere dell’ospedale venne a tosarci tutti quanti a zero.
Era di Sasso, un certo Lelli, che una volta aveva il negozio proprio in paese e in quel periodo faceva il barbiere presso l’ospedale S. Orsola e l’ha fatto fino alla morte.
Allora dico io: ci conosciamo?
Ma, disse lui, non lo so, chi sei?
Dico: sono il figlio di Righi Olindo della Fontana.
Ah Martino! Ma guarda un po’. E poi cominciò a scuotere la testa mentre mi tosava, e diceva fra sé: ma pensa te le chiacchiere.
E io: cosa intende dire?
Ma sai… qui a Bologna c’è fuori la chiacchiera che tu sei morto! Han visto la tua tomba addirittura, nella linea lì dove sono i Tedeschi, al fronte!
Rimasi di stucco.
Pensai subito che sicuramente le mie due sorelle che erano sfollate a Bologna, la Nella e la Mafalda, avevano sentito questa voce.
Allora chiesi al barbiere se gli era possibile avvertire qualcuno dei miei a Bologna, che venissero a trovarmi, che c’ero ancora!
Ma sì, dice, ci proverò.
E così fece il bravo barbiere. Durante l’allarme antiaereo, andò in un rifugio e trovò Elda, un’amica di mia sorella Mafalda.
Le disse: guarda che io oggi ho tosato un ragazzo che si chiama Martino, che mi ha chiesto di avvisare le sue sorelle. Così l’Elda andò a trovare la Mafalda, che si precipitò da me in ospedale. Poi venne anche l’altra mia sorella Nella.
Quando le mie sorelle vennero a farmi visita, chiesi se potevano avvertire il babbo e il resto della famiglia.
Mio padre, con la mia matrigna e due mie sorelle, erano già sfollati a Zola Predosa e loro non sapevano niente di me.
Quella zona non era stata evacuata, però per raggiungerla bisognava passare da Casalecchio, ed era molto rischioso.
Quindi la Nella e la Mafalda mi risposero che non sapevano come fare.
Trascorsi così la quarantena, durante la quale, passati i pidocchi di ogni tipo, dovetti combattere anche contro la scabbia, che è sempre un prodotto della sporcizia. Non ci duravo dal prurito! Mi son grattato per quaranta giorni e quaranta notti, fino ad arrivare alle piaghe.
Quando fui sfebbrato, la Nella mi disse che voleva prendermi a casa con lei, dove era sfollata con la famiglia, da Casalecchio.
A Bologna erano alloggiati presso una famiglia, che stava in affitto in via Centotrecento. Avrebbe cercato di convincere il titolare dell’affitto ad ospitare anche me, anche se erano già molto fitti in quell’appartamento.
Io morivo dalla voglia di andare via, ma ricordavo bene le parole del sergente tedesco che ci aveva lasciato in ospedale: noi vi abbiamo portato qui a curarvi perché siete malati, ma quando sarete guariti, dovrete tornare dove eravate, lassù da noi (cioè a lavorare per la linea gotica).
Comunque mia sorella parlò al padrone di casa, certo Rienzi, che da principio mostrò qualche resistenza, anche perché gli fu detto che non ero ancora guarito dalla scabbia e lui aveva due figli piccoli in casa e temeva il contagio.
Ciononostante, cedette poi alle accorate insistenze della Nella, accompagnate dalle promesse di usare tutte le precauzioni possibili.
In fondo era gente buona e generosa, che capiva la situazione.
Fu così, che quando mia sorella ebbe il benestare di prendermi là con loro, andò a parlare con il medico che mi curava, certo dr. Cugnini. Provò a dirgli: visto che mio fratello è già guarito e non ha più la febbre, io lo prenderei a casa mia a fare la convalescenza.
Il medico si oppose con determinazione: no, no signora, io non posso mica lasciarlo venire a casa sua. Qui l’han portato i Tedeschi e io ho l’obbligo di riconsegnarlo ai Tedeschi!
La Nella scoppiò a piangere e disperarsi: è ancora convalescente!
E lui, fermo: può rimanere qui in ospedale finché non ha recuperato un poco le forze, ma poi io devo riconsegnarlo ai Tedeschi.
Mia sorella venne da me piangendo.
Era circa mezzogiorno. E io volevo lasciare l’ospedale. E non volevo tornare con i Tedeschi.
Le dissi: tu adesso vai a casa e stasera, prima del coprifuoco, vieni qui con qualcosa da mettermi addosso (perché io avevo solo il camicione che davano loro) e poi io vengo a casa con te.
Puntualmente la sera stessa lei arrivò con Nandino, suo marito. Mi portarono da vestire, mi presero per le braccia, uno di qua e uno di là e sgattaiolammo via per una porticina del reparto Isolamento. Ancora oggi, quando vado al S. Orsola, la vedo quella porticina! Adesso è sempre chiusa.
Arrivammo a piedi in via Centotrecento e il dottore è ancora là che aspetta!
L’ho rivisto dopo la guerra, era primario del reparto dove era ricoverata la mia matrigna, però io non gli dissi niente.
All’ingresso dell’appartamento di via Centotrecento, c’era una specie di salone abbastanza grande, a sinistra c’era la stanza dove stava la Nella con la sua famiglia e a destra c’erano altre due stanze, una per la famiglia dell’affittuario e l’altra per un’altra famiglia di sfollati.
La famiglia della Nella era numerosa: suo marito Nandino, la figlioletta Franca, la suocera Adalgisa, la cognata Nora e il “bastardino” Marino. E poi mi aggiunsi io.
All’inizio stavamo in sette in una stanza e poi mi assegnarono una brandina nel salone e io lì andavo bene perché ero solo e quindi godevo di una certa “libertà”! Il cesso di casa era in uno stanzino, ricavato dentro l’ambiente della cucina!
Il bagno si faceva in una catinella nella propria camera.
Tutte le sere mia sorella mi scaldava un gran pentola d’acqua e mi faceva il bagno, perché l’unico mezzo per far morire la scabbia era fare un bagno tutti i giorni e poi ungersi con un unto che si chiamava “ossido giallo”. Mi sembra ancora di vederlo: era una pomata densa e gialla, che si spalmava per tutto il corpo.
La Nella mi ungeva e mi vestiva di tutto punto con calzini, maglia, mutande lunghe, guanti, per evitare di sporcare il letto.
In quella casa rimasi quasi un mesetto.
In quel lasso di tempo uscii di casa non più di tre volte. E solo per andare all’Opera! A sentire mio cognato Nandino che cantava nel coro del Comunale. Mi ricordo la Bohème…
Passavo tutto il tempo in casa, perché non volevo farmi vedere molto in giro, per evitare di incontrare qualcuno che mi conosceva e che non fosse dalla mia parte.
Però qualche volta ricevevo le visite di una ragazza, che avevo conosciuto prima di andare nei partigiani. Era venuta a trovarmi anche all’ospedale.
Mia sorella mi chiese che intenzioni avevo con lei. Io le risposi che, dato il particolare momento, non avevo nessuna intenzione di impegnarmi. Allora la Nella mi pregò di lasciar perdere, per non correre dei rischi inutilmente e per non recare disturbo a chi ci ospitava.
Fu così che le scrissi una lettera, con cui… “davo le dimissioni”! E gliela consegnai in occasione di una sua visita, nel momento del commiato. Così non potei vedere la sua reazione.
Un giorno viene a trovarmi un giovane della famiglia, dove erano sfollati i miei genitori con le altre mie due sorelle, in località Ponte Ronca. Erano parenti della mia matrigna e avevano lo stesso suo cognome, Bartarelli.
Fernando era il nome di questo ragazzo, che era di due anni più giovane di me. Anche lui aveva fatto il partigiano, però in quei giorni era a casa, perché d’inverno non si poteva stare alla macchia.
Era stato mandato lì a Bologna dai miei genitori, che, non so come, erano venuti a conoscenza del mio domicilio.
Fernando mi prese subito in simpatia e mi disse: perché non vieni anche tu là a Ponte Ronca? Là non ci sono più le SS, adesso ci sono i Tedeschi militari normali, sono Alpini e ci lasciano vivere. La nostra casa è grande abbastanza e da mangiare ne abbiamo.
Allora ne parlai con la Nella, dicendole che sarei andato volentieri, anche per rivedere i nostri genitori e per alleggerire un po’ la casa di via Centotrecento. Allora fa lei: fai come preferisci, se vuoi restare, io ti tengo ancora.
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[Prologo] [1-In guerra] [2-Nella Todt] [3-Nei partigiani] [4-Da ferito] [5-Sfollati e deportati] [6-A Bologna] [7-Da Ponte Ronca al carcere] [8-La Liberazione] [9-Il Dopoguerra]
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DIECI ANNI DI VITA TRA IL ’40 E IL ’50 A SASSO E DINTORNI
LE TESTIMONIANZE DI MARTINO RIGHI DA REGISTRAZIONE DEL 2002 INTEGRATE CON QUELLE DI GIANNA DALL’OMO DA REGISTRAZIONE DEL 2012.
capitolo 5
SFOLLATI E DEPORTATI
In quei giorni la Gianna stava proprio sotto i bombardamenti, nel paesino della Fontana, dove viveva con la famiglia.
Racconta che, al suono dell’allarme, scappavamo tutti per rifugiarsi nelle grotte della Rupe del Sasso.
Allora dalla Fontana si vedeva una lunga fila di gente (tutti gli abitanti del paese), dirigersi verso le grotte, così senza nessuna protezione.
Poi, appena arrivati nel rifugio, c’era il cessato allarme!
Finché, con l’arrivo dell’estate e l’avvicinarsi del fronte, furono costretti a rimanere permanentemente in grotta, dove dovettero vivere per mesi in condizioni a dir poco disagiate.
Ogni nucleo familiare aveva preso posto nel proprio loculo, dove depositava materassi e coperte.
Per i nostri bisogni corporali, andavamo fuori, subito dietro la grotta. Così era sempre pieno di escrementi e a nessuno che venisse in mente di pulire un po’, prendere un badile e buttare tutto giù per il grotto.
Le normali attività lavorative erano ormai tutte cessate e i negozi avevano chiuso.
Alla Fontana i Tedeschi avevano preso possesso della bottega dell’Ida di Cassani, e da lì salivano frequentemente alle grotte, alla ricerca degli uomini validi. Ma gli uomini erano tutti nascosti, chi dentro le grotte (anche all’ insaputa degli stessi familiari) e chi nel bosco come Pietro, suo padre.
Pietro, allora poco meno che quarantenne, era troppo “vecchio” per il militare. Però in quel periodo dovette nascondersi, perché avrebbero preso anche lui Si nascondeva, insieme agli altri uomini, nei boschi sopra la Rupe.
La nonna Natalina, che abitava in un podere in cima alla Rupe, portava da mangiare a lui e anche agli altri uomini. Quel poco che metteva insieme, visto che non ne bastava neanche per la propria numerosa famiglia.
Lassù c’era un piazzale da dove i Tedeschi sparavano con i cannoni e la nonna abitava proprio lì.
A volte, dalle grotte in cui vivevamo, andavo, con mia cugina, su per la Rupe, dalla nonna. E c’erano le cannonate che ci passavano di qua e di là, non so da dove, le pallottole facevano ssssssss!
Quando i Tedeschi salivano in grotta, noi donne avevamo paura, perché a volte avevano preso delle ragazze.
Una volta che vennero, dissero che volevano due ragazze per pelare delle patate, le venivano a prendere per andare giù alla bottega. Allora, visto che ero una cinnazza, ci andai io con un’altra, che però era più grande di me e così bellina!
Mi misero lì in cucina, nella bottega di Cassani, a pelar le patate. Invece la ragazza che era con me la mandarono di sopra a fare le camere!
Quando tornò mi disse: micca dir niente veh, dì che siamo sempre state assieme.
Non seppi mai cos’era veramente accaduto in quelle stanze di sopra, vidi solo che lei non era messa tanto bene.
Mentre la Gianna stava nella grotta della Rupe, Martino stava nel rifugio del monte sopra la Lama.
Era un rifugio in cui pioveva dentro e venne anche giù un blocco di terra.
Io compii i miei vent’anni proprio lì dentro. Era l’11 novembre 1944.
Pensavo: guèrda bàin duv a véin a cumpîr gl’ân mé, i véint’ân (guarda dove vengo a compiere gli anni io, i vent’anni)…i vent’anni sono i più belli, dicono.
Era un periodo che pioveva quasi tutti i giorni e quei rifugi erano talmente superficiali, che con le grandi piogge cominciarono a crollare. Ecco perché direi che adesso non si vedono più. Per questo ci spostammo in altri rifugi più in basso.
Nelle case giù di Campofedele e Brolo, le famiglie di contadini che abitavano lì avevano fatto, per i civili, dei rifugi robusti, sotto a delle pareti molto spesse e quindi erano più sicuri.
Allora io ed altri andammo a nasconderci lì insieme alle famiglie del luogo.
Ma dopo poco tempo, nello stesso mese di novembre di quell’anno, ci piombò nel rifugio una pattuglia tedesca, che ci prelevò per andare a lavorare.
Ci portarono su a S. Silvestro, dove, dato l’imminente arrivo del fronte, i Tedeschi volevano fare delle trincee.
Non ci fecero del male, perché anche se loro sospettavano che noi fossimo partigiani, non eravamo più armati (le armi le avevamo nascoste), quindi eravamo civili e loro avevano bisogno di manodopera per fare quelle trincee.
Si attestarono anche su Monte Sole, come sui monti dei dintorni, tenevano botta e costruivano fortificazioni per mitraglie, cannoni e via dicendo.
La sera stessa della nostra deportazione, le mogli dei contadini che erano stati portati via con noi, vennero su a chiedere al tenente delle SS se ci lasciavano venire a dormire nei rifugi, dove era più sicuro, perché i bombardamenti e le cannonate degli alleati erano sempre più frequenti.
Era un giovane tenente, che subito rispose: no, no, niente buono.
Le donne si misero a piangere, tanto che, ad un certo punto, lui si mosse a compassione e ci lasciò tornare nei rifugi. Però disse: voi andare rifugio e domattina ore 8 essere qui a lavorare. E noi: sì, sì, certo!
Ma mentre scendevamo dal monte, le donne ci comunicarono la notizia: abbiamo avuto l’ordine di evacuare, domattina dobbiamo andar via, dobbiamo andare a Bologna.
L’ordine veniva proprio dai Tedeschi, che non volevano che ci fossero dei civili in zona.
Quindi, ci dissero con fermezza le donne, domattina presto, appena giorno, noi partiamo e voi altri venite con noi.
E così facemmo. Era il 14 novembre 1944.
Io in mezzo a loro, chi aveva la carriola, chi il biroccetto a mano per portarsi dietro qualcosa. Ho ancora negli occhi la scena: tutta ‘stà povera gente dalla Lama di Reno, con ‘sti carrioli, carrettini, con le bestie spaiate, chi piangeva, i bambini…era uno strazio.
Quando arrivammo alle grotte sopra al Botteghino (dove ora c’è la trattoria La Rupe), io andai su nei rifugi per vedere di trovare qualcuno che conoscevo: difatti le grotte erano piene di rifugiati della Fontana e Case Gasparri, che avevano portato su dei viveri, così facevano qualcosa da mangiare…
C’era anche la mia futura moglie, la Gianna, lassù nelle grotte. Ma io allora non la conoscevo.
Nelle grotte ritrovai invece Gardini, Pasquini, Lucchi e altri. Erano quelli del gruppo di Guido Cremonini che, alcuni mesi prima, si erano spostati dalla parte di Dola.
Mi ricordo che Gardini mi disse: noi abbiamo deciso di restare qui, non andiamo a Bologna, perché qui le famiglie si sono organizzate, hanno fatto provviste, hanno da mangiare. Contiamo di passare il fronte da qui.
Infatti allora si pensava che il fronte venisse avanti in fretta. Invece si mosse solo in primavera.
Quelli del mio gruppo dissero che era meglio andare a Bologna. Io mi lasciai convincere, così mi avviai verso Bologna, insieme alle famiglie della Lama.
Presto i Tedeschi mandarono via anche tutti quelli che erano nelle grotte, che nel frattempo avevano finito le provviste e l’acqua.
Così anche la Gianna, con la famiglia, dovette andare a Bologna.
Anche gli uomini che erano stati nascosti nel bosco, visto che non c’era più nessuno a rifornirli di cibo, uscirono allo scoperto e si unirono all’esodo.
Gianna prosegue nel suo racconto.
Anche mio padre venne giù, allora preparammo una carriola con le poche cose che avevamo, io avevo una bicicletta, dove avevo caricato il mio fratellino Giulio, e quando fummo a Sasso, in località Cervetta catturarono mio padre insieme a tutti gli altri uomini. Allora mia madre e Chicco, l’altro mio fratello, presero la carriola e io insieme a loro, sempre con Giulio sulla bicicletta, riprendemmo tristemente la strada per Bologna.
Anche Martino, con i suoi amici della Lama, dopo aver lasciato gli altri compagni nelle grotte, dovette passare per il posto di blocco della Cervetta.
La pattuglia dei Tedeschi era là ad attenderli e li presero tutti.
Io avevo ancora due o tre lineette di febbre la sera. Poi smisi di provarmela, visto che non avevo più il termometro!
Provai a dire che ero krank (malato). E loro: no, tu buono.
Quel Tedesco in principio mi ascoltò pazientemente, ma poi, alle mie insistenze, sbottò: tu buono, dio boia! E dovetti cedere.
Lì alla Cervetta c’era una macelleria con cancelli di ferro: ci misero lì dentro (dove c’è il fornaio adesso) e così fecero con tutti quelli che fermavano.
Arrivarono anche Gardini e gli altri, che erano rimasti nelle grotte.
Allora io gli chiesi ironico: ma cum’éla ca si qué (come mai siete qui)?
Vidi anche quando presero Pietro, il padre della Gianna. Venne lì dentro con me, però allora ci conoscevamo appena.
Alcuni (tra cui Pietro, Grassilli e Bettini) li portarono su a S. Silvestro, località da dove ero appena sfuggito ai lavori imposti dalle SS. Allora pensai: se mi mandano lassù mi riconoscono e non so cosa mi potrà succedere…perché c’era quella regola lì che se uno scappava, lo facevano fuori…non è sempre stato vero, però ne hanno fatto di quelle cose lì, rappresaglie ecc.
Fortunatamente mi portarono a Cà d’Piréin (casa Pierino, nei pressi del vecchio ingresso dell’autostrada), lì a Sasso.
Durante il giorno eravamo in zona, circa duecento rastrellati, accampati nelle case di Prato del Miglio.
La sera, all’imbrunire, ci caricavano nei camion e ci portavano verso Monzuno e zone limitrofe, per portare le munizioni al fronte.
Una notte i Tedeschi mandarono me ed alcuni altri giovani rastrellati a portar via del bestiame nella zona di Vado, all’Allocco.
Là c’era un mulino, il famoso il mulino dell’Allocco, al muléin dl’Alòc.
Era giù vicino al fiume, dove adesso c’è la passerella, che allora era distrutta.
Quando arrivammo al mulino, vi trovammo delle famiglie di civili e anche dei Tedeschi.
C’erano delle bestie nella stalla e i contadini ci supplicarono di non portarle via, perché erano la fonte del loro sostentamento.
E noi cosa potevamo fare?
Noi siamo qui rastrellati come voi, sono i Tedeschi che comandano, noi non possiamo mica decidere se prenderle o meno.
E loro: fate in maniera che ce le lascino, che danno un po’ di latte, che ci permette di sopravvivere, con i bambini...
Niente da fare, i Tedeschi furono perentori: mucche portare.
Così, come sempre per evitare i bombardamenti, aspettammo che cominciasse a scurire, poi uscimmo ed andammo a prendere le bestie.
Portammo questi animali giù lungo il Setta e, quando vedemmo che il fiume non era in piena, anche se faceva molto freddo, cominciammo ad attraversare con le bestie alla cavezza.
Quando fummo nel bel mezzo del fiume - c’era una luna che sembrava giorno – inaspettatamente incominciarono ad arrivare gli aerei e mitragliarono sopra di noi.
Le bestie si spaventarono e ci scapparono e dovemmo recuperarle.
Poi riuscimmo a passare di là dal fiume e proseguimmo finché arrivammo giù a Casa Venezia di Battedizzo, una casa sulla strada, che c’è ancora, anzi l’hanno ampliata ed è diventata una bella casa, mentre prima era una casetta con la stalla.
Ci fermammo lì e mettemmo le mucche nella stalla.
Quando si fece giorno, noi avevamo una gran fame, perché la sera eravamo partiti senza mangiare. Io trovai un tegame lì in giro, lo pulii un po’ come potei e cominciai a mungere una mucca per bere almeno un po’ di latte. Allora si diceva che il latte appena munto si poteva anche consumare crudo.
E invece: un mal di pancia!
Riprendemmo la nostra strada e arrivammo a Prato del Miglio. Lì c’era una piccola stalla, dove tenevano le bestie, che venivano poi macellate ogni due o tre giorni, per la mensa dei molti Tedeschi lì alloggiati e anche di noi rastrellati.
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